lunedì 20 giugno 2011

La capanna della sofferenza


rubata qui

Sono stato in posta stamattina, ci vado almeno una volta al mese per pagare i bollettini vari che sommergono le nostre esistenze e ci svuotano il portafoglio.
Naturalmente non funzionava niente o quasi e sono rimasto ad aspettare per una buona mezz'ora.
In questo tempo di attesa avevo intenzione di aprire il Cybook e immergermi nella lettura di qualcosa. Invece la mia testa ha cominciato a vagare, anche grazie ad una signora vicino a me che parlava della scomparsa in giovane età di una sua amica. Questo mi ha fatto venire in mente un'usanza di alcune tribù tibetane del nord, che non so neanche dove ho letto o sentito.
Se c'è nel gruppo un malato, questo viene posto in una tenda al centro delle altre (che sono normalmente poste in cerchio) e qui resta fino alla guarigione o alla morte. Ma la particolarità è che ogni giorno qualcuno lo va a visitare e gli porta un dono. Non qualcosa di particolare o di strano, ma semplicemente una radice, una foglia, una piuma d'uccello, qualcosa così, insomma. E il malato capisce, guardando questi oggetti, che non è solo nella sofferenza.
Quest'immagine mi ha fatto riflettere sull'importanza che la nostra società dà alla persona malata, specie in fase terminale. 
Io ho perso i miei genitori a distanza di 2 anni e mezzo, entrambi a causa di un tumore al fegato. Mio padre è stato ricoverato prima un paio di volte per poche ore al pronto soccorso nell'arco di 15-20 giorni; poi dopo l'ultimo ricovero la notte di ferragosto è rimasto in ospedale per una settimana ed è morto. In quei giorni è stato tartassato con prelievi quotidiani per controllare i valori del sangue, continue terapie con iniezioni e compresse (anche quando aveva difficoltà a deglutire), gli hanno messo una mascherina particolare per ossigenarlo, ecc. E la mattina che è morto era talmente stufo di tutto questo che, in stato semicosciente, ha strappato di mano all'infermiera l'ago con cui gli stava facendo l'ennesimo prelievo, sporcando di sangue tutto ciò che stava intorno. Dopo un paio di ore ha chiuso gli occhi. Gli stessi medici che l'hanno assistito avevano comunque detto che era destinato a spegnersi nel giro di pochi giorni.
Dopo quest'esperienza di accanimento nei confronti di mio padre, quando mia madre è arrivata allo stesso punto, ho preferito tenerla a casa, anche perché lei aveva sempre detto: "fatemi morire a casa mia". Naturalmente ha avuto tutta l'assistenza medica possibile, anche grazie ai medici di un associazione di volontariato che qui a Vercelli segue i malati in fase terminale. E mia madre è spirata tranquillamente, senza che prelievi e terapie varie le prolungassero l'agonia.
Davanti ad una persona che sta morendo, io penso, dobbiamo pensare anzitutto alla persona, non al nostro rapporto con lei. Mi spiego. Se pensiamo che stiamo perdendo un familiare probabilmente ci viene naturale dire (o gridare) dentro di noi: non voglio. Ma la morte è l'unica certezza della vita, si dice. E prima o poi dobbiamo morire tutti. Perciò ritengo che bisogna sempre chiedersi qual'è la cosa migliore per la persona che si ha davanti, sia che questa stia bene sia che, a maggior ragione, stia male.
Chi arriva a quei momenti, normalmente, capisce che sta morendo e capisce pure, per quanto questa cosa possa procurargli dolore nell'animo, che è inevitabile. Perciò ritengo, forse a torto, che voglia soffrire il meno possibile.
Non voglio qui impelagarmi in discussione su eutanasia e cose di questo tipo, ma semplicemente ragionare con voi sul far seguire alle cose il loro ritmo naturale.
Come quel tibetano nella tenda: alla fine morirà pure, ma ogni giorno potrà vedere dalla foglia e dalla radice che non è solo. E che tutti lo rispettano perché è ancora uno di loro, fino alla fine.
TIM

9 commenti:

  1. Il tuo post apre ricordi dolorosi per me: avevo 22 anni quando mia madre di 46 ebbe diagnosticato un cancro. Per decisione dei familiari le venne nascosta la cosa, gli fu detto che aveva un osteoporosi. Riuscimmo a tenerla in casa, gli ultimi mesi li ha comunque passati in famiglia, però tra chemio, cure strazianti e bugie (pietose ma pur sempre bugie).
    Ricordo i parenti di lei che comandavano a casa nostra, ricordo i sensi di colpa per le bugie che le raccontavamo, il corpo di mia madre che deperiva, l'accanimento dei medici (ed anche loro sostenevano che non c'era molto da fare).
    Mia madre ha saputo solo alla fine quello che aveva. Ora nemmeno io voglio fare la difesa dell'eutanasia ma se un domani dovesse capitare a me vorrei poter decidere io se vivere o meno i miei ultimi giorni con dignità.
    Quello che a mia madre è mancato.

    RispondiElimina
  2. È una questione delicatissima. Io pure dico sempre che preferisco morire qualche mese prima piuttosto che sostenere una lunga agonia, ma quando la cosa riguarda te personalmente è facile dirlo. Il problema è quando si tratta di un altro e tu, come famigliare, devi sostenerlo. Non ho esperienze dirette, ma mia madre racconta spesso di suo padre che negli ultimi tempi soffriva così tanto da dire ai medici "Vi prego, fatemi morire". Certo, essere tenuto in vita con le macchine solo per stare in un lunghissimo coma mi sembra un inutile accanimento. Anche se è doloroso e controverso dover dire "Ok, staccate la spina del mio parente".

    RispondiElimina
  3. E' un discorso complesso. In questo periodo, poi, ho avuto diversi lutti in famiglia. Per cui preferisco astenermi da certi pensieri.

    RispondiElimina
  4. Io non faccio nessun commento perché magari te lo racconto con calma. Magari se me la sento te lo metto nell'intervista... ;)

    RispondiElimina
  5. @ Nick: certo sono ricordi dolorosi. Io sto metabolizzando a distanza di due anni e mezzo quello che è capitato a mio padre e ancora non penso di esser pronto a ripensare a mia madre. Ma il punto è che non è neanche questione di eutanasia e cose del genere, è proprio la capacità di comprendere che, a mio modestissimo avviso, accanirsi tentando di tutto quando il medico ti sta dicendo (come ha fatto benissimo il dottore di mia madre): non c'è niente da fare, è inutile e dannoso per il malato stesso che potrebbe morire più tranquillamnete se non fosse bucato in ogni dove. L'unica cosa che abbiamo fatto per lei è stato metterle dei cerotti alla morfina per alleviarle il dolore.
    @ Ariano: è proprio quello il punto. Non dovremmo decidere in base a quello che vorremo egoisticamente, ma guardando la realtà in faccia. Poi chiaramente ognuno decide in coscienza.
    @ Glauco: liberissimo di farlo, anzi grazie per l'intervento.
    @ Eddy: sarei felicissimo se lo facessi e non per avere lo sccop, ma proprio perché queste cose sono quelle che ci dicono chi siamo veramente, al di là di ogni facciata.
    Temistocle

    RispondiElimina
  6. Dici bene Tim, qui non si parla di eutanasia,
    ma di rispetto della volontà della persona.

    Infatti quando i parenti vogliono curare insistentemente un famigliare malato, è accanimento teraputico se la persona non vuole subire queste pesanti cure.

    Anche io ho avuto un parente vicino malato di quella malattia.
    Non si può insistere contro la volontà di un paziente, altrimenti si soffoca la libertà.

    E poi come dici la morte è una delle tappe della vita...
    che poi è l' ultima, è solo un dettaglio.

    Un abbraccio

    RispondiElimina
  7. @ Daniele: Certamente. E anche nel caso in cui una persona non abbia espresso alcun parere in merito, bisogna fare quello che è meglio per lei, per evitarle sofferenze che, ad un certo punto, sarebbero inutili. Non si parla qui di utanasia, di staccare una spina o altro, non è iil tema del post. Di quello si potrà discutere un'altra volta. Qui si tratta dei casi in cui la persona si sta spegnendo e non ci sono vie d'uscita alla malattia.
    Temistocle

    RispondiElimina
  8. Una parola in più ed una in meno in merito mi sebrano invadenti. Discorso delicato, ma vivere le esperienze sulla propria pelle fa percepire la realtà da un punto di vista completamente diverso.
    Un abbraccio

    RispondiElimina
  9. @ Mark: certamente ognuno ha e ha avuto le proprie sofferenze da questo punto di vista. Si arriva poi ad un'età in cui è fisiologico cominciare a perdere i propri cari. Ma quello che io penso di aver imparato in tutto questo è il rispetto per l'altro e il fatto che gli altri, specie i genitori, sono altro da noi, una forma di affrancamento dall'autismo innato dei bambini ritardato.
    Temistocle

    RispondiElimina

fatti sentire

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...