mercoledì 29 febbraio 2012

Stuzzichini per il tempo libero: 54 pillole di FS

Nella mia lotta contro gli inevasi, cioè gli ebook che stanziano anche da un anno nel mio Cybook e ancora non hanno avuto una chance di lettura, mi sono preso un paio di ore per leggere questo 54 pillole di fantascienza.
Della serie Modica Quantità, progetto dell'Anonima Scrittori, questo libro raccoglie racconti brevi di argomento, appunto, FS.
Come solennemente affermato dall'Anonima Scrittori, il loro sito "sta conducendo una battaglia contro le parole in eccesso e ha lanciato il progetto "Modica Quantità". La sfida è semplice: scrivere una "pillola" di narrativa di non più di 2500 battute (spazi inclusi, titolo escluso)." Questa idea nasce all'interno del gruppo al fine di "liberare energie creative e si basa su una serie di vincoli: scadenza, lunghezza, ispirazione… "
Fatta così anche un po' di pubblicità, ora solo due parole per invitarvi ad andare a scaricare (se non lo avete già fatto a suo tempo) questo ebook delizioso, fatto apposta per chi ha poco tempo e vuole sfruttarlo tutto fino all'ultimo secondo nell'emerita arte della lettura. 
Sono tutti, o quasi, ottimi racconti, tenendo conto che gli autori avevano a che fare anche con la ghigliottina della lunghezza. Io mi sento di segnalarne qualcuno:
Amorfide, di Giovanni Buzi;
Morte di una stella, di Luigi Brasili;
il simpaticissimo (sin dal titolo) Se non ho scritto un racconto più bello è stato solo per non dare nell'occhio, di Euridice.
E poi, naturalmente:
Cronodisastro di  Alfredo Mogavero  (cosa succede a voler modificare il passato!)
e, ultimo ma non ultimo, Condanna, dell'amico Angelo Benuzzi, che in poco meno di 2400 battute descrive una razza che noi ben conosciamo e che, forse, spesso non vorremo come vicina di casa!
Buona lettura, e vi ricordo che potete trovare anche la pagina Facebook dell'Anonima Scrittori.

TIM


[P.S.: dimenticavo questo Editoria multimediale, di Lovable, che perpetuerà l'annosa polemica su... ]

lunedì 27 febbraio 2012

Dedico anch'io un racconto al mio scrittore preferito

Visto che tutti stanno postando il proprio contributo al concorso di Ferruccio dedica un racconto al tuo scrittore preferito giunto ormai alla seconda edizione, lo faccio anch'io. E così il post per oggi e bell'e confezionato.


ISAAC ASIMOV
Alberi, sono solo alberi, imprecava Mike ogni volta che si girava indietro, per farsi coraggio. Ma rumori e fruscii non smettevano in quel bosco che pareva senza uscita. E ora era certo che qualcuno si stava avvicinando. Poi sorrise, quando vide che era Frida, la sua Frida. Le tese la mano e scacciò dalla mente i timori e le paure. Però che strana quella mano così fredda…

TIM

sabato 25 febbraio 2012

Il bello dello scribacchiare

Sento già i brusii dall'altra parte dello schermo: " e mo' che succede! un altro post! S'era calmato finalmente!". 
Sì, lo so che ultimamente non appestavo più di tanto il mondo dorato di voi amici blogger (perché siamo ancora amici, vero?) e mi limitavo a un paio di post la settimana, quando andava grassa. Ora però siamo tornati ad una cadenza di quasi un articoletto al giorno. Non è colpa mia, ma quando certe cose mi stuzzicano non so resistere. E poi, dopo qualche mesetto di presenza su Facebook, mi sono accorto che l'esperienza può andare bene per una sveltina e via, ma oltre questo non c'è niente di meglio del buon vecchio blog se si vuole parlare seriamente di qualcosa; becchi meno gente, ma si possono fare meglio due chiacchiere in pace.
Oggi comunque voglio solo lasciarvi un piccolo spunto di riflessione, in linea con alcuni post che hanno girato per i blog vicini di cella in questa settimana.
Prendo lo spunto da alcune righe tratte da un libro che il dottor Mana conosce bene e mi ha consigliato qualche tempo fa. Si tratta di Scrivere Zen di Natalie Goldberg che a pagina 41 dice (si parla della poesia ma penso che il discorso possa valere sicuramente anche per la prosa):
È doloroso restare invischiati nelle proprie poesie, riscuotere troppi riconoscimenti per una raccolta di poesie. La vita vera sta nello scrivere, non nel leggere le stesse poesie infinite volte per anni e anni. Abbiamo continuamente bisogno di nuove intuizioni, di nuove visioni. Noi non siamo qualcosa di solido e permanente. Non esiste verità definitiva che si possa catturare in una poesia, così da garantirci soddisfazione eterna. Non dobbiamo identificarci troppo con quello che scriviamo. Dietro a quelle parole, nero su bianco, bisogna conservare la nostra fluidità. Noi e le nostre parole non siamo la stessa cosa. Quelle parole rappresentano un momento importante che ci ha attraversati. Eravamo desti, e scrivendone siamo riusciti a catturarlo.
Chiaramente è più facile capire il concetto parlando di poesia, dove ogni verso o parola capta e descrive un'emozione, una sensazione. Ma anche parlando di prosa si può fare lo stesso ragionamento: anche il libro più bello che abbiamo scritto, anche la storia più intensa che abbiamo raccontato, non siamo noi. Abbiamo catturato nelle nostre pagine una situazione puntuale, o anche un pensiero eterno, ma non ci appartiene più, perché nel frattempo noi siamo andati avanti, abbiamo fatto altre esperienze, conosciuto altre persone, vissuto altre storie.
Allora non mi posso fermare al libro / ai libri che ho scritto finora, perché sono acqua passata, sono stati begli esercizi di stile per arrivare a scrivere il prossimo; e così via nel futuro.
Non dobbiamo identificarci troppo in quel che scriviamo non perché dobbiamo scrivere di altri/o che non siamo noi, ma perché quello che abbiamo messo nero su bianco appartiene ad un altro me, quello di ieri. Da oggi in poi si cambia; o meglio si va avanti senza preconcetti o schemi prefabbricati.
Tutto può succedere, domani.
È questo il bello dell'essere uno scribacchino?
Un sacerdote incontrò un giorno un maestro zen e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domandò: "Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cos'è la realtà?".
Il maestro gli diede un pugno in faccia.
Questa mi piace!

TIM

venerdì 24 febbraio 2012

La prima volta col cardiologo

Sono tornato da poco da un centro polifunzionale convenzionato col SSN, dove ho fatto il mio controllo cardiologico annuale, comprensivo di elettrocardiogramma.
Eh, che ci volete fare, dopo una certa età tocca a tutti. Quindi preparatevi anche voi.
Avevo già fatto, sempre presso lo stesso centro, peraltro comodissimo quando ad attese (max un paio di giorni) e a professionalità, l'ecodoppler all'aorta del collo e le analisi complete del sangue.
Le solite cose, insomma.
Non sono qui, però, per raccontarvi del mio stato di salute, che nel complesso non è male; sicuramente sta meglio di quello finanziario, ma questo è un malanno che colpisce tutti, purtroppo.
È che tornando riflettevo su alcune cose.
Mentre ero lì arriva un signore anziano, anche abbastanza acciaccato da quel che potevo vedere, il quale voleva prenotare una visita cardiologica urgente, ma con uno specialista diverso da quello convenzionato, che gli era stato consigliato dal proprio medico di famiglia; gli dicono che la spesa è di 120 euro solo per la visita. E già questo mi ha fatto scattare la mosca al naso: ma non ci sono specialisti bravi anche convenzionati? O la bravura si misura in centinaia di euro? Se è gratis non vale niente; da 0 a 100 euro è bravo; da 101 a 200 è bravissimo; da 201 in poi è un luminare. Ma forse solo nell'arte di scucire soldi alla gente.
Nel frattempo io scopro che, pur avendo l'esenzione perché paziente in trattamento per ipertensione, devo pagare ugualmente la mia visita perché è la prima volta che vado con quel medico. Non capisco e chiedo spiegazioni visto che comunque ho l'impegnativa del mio medico di base e quindi sono coperto dall'assicurazione del SSN. Ma mi viene risposto che quando si fa una visita per la prima volta con uno specialista, bisogna pagare il ticket. Ormai non potevo più riprenotare, pur volendo, un'altra visita e mi vedo costretto a pagare.
Naturalmente il cardiologo, al termine della visita, mi consiglia caldamente di fare un'ecografia cardiaca appena possibile. "La faccia appena può, si faccia fare l'impegnativa dal suo medico e venga che gliela facciamo!" mi dice con un sorriso a 64 denti.
Uscendo, dopo che l'impiegata mi ha ricordato che la prossima volta è meglio se prenoto con lo stesso medico (ma dirlo prima no, eh?) faccio il conto di quanto ho speso in 5 giorni per questo chekup parziale: 39 euro per visita ed elettrocardiogramma; 54 per le analisi (tenendo conto che non pago il ticket per quelli relativi alla mia patologia); 48 per l'ecodoppler. 
A questo punto spero di avere almeno qualche piccolo acciacco, altrimenti avrò speso 141 euro per sentirmi dire dal mio medico: lei sta benissimo!


TIM

giovedì 23 febbraio 2012

Identikit di un incubo, di Heater Graham

Oggi vi parlo di Identikit di un incubo, dHeater Graham, scrittrice americana che prima di approdare al genere thriller, ha scritto più di 100 romanzi rosa e che ora (pare) stia cominciando a prendere confidenza con la parola vampiri.
Vediamo prima un po' la trama:
Ashley Montague, intraprendente recluta della polizia, è in macchina quando si ritrova all'improvviso sulla scena di un incidente. Sull'asfalto un ragazzo mezzo nudo travolto da un'auto. L'immagine le si imprime nella mente e quando scopre l'identità della vittima, decide di capire. Il detective Jake Dilessio, ancora tormentato dalla morte misteriosa della sua compagna di lavoro, deve indagare su un nuovo omicidio che risveglia remoti fantasmi. Davanti a lui il cadavere di una donna mutilato come le vittime di una caso archiviato cinque anni prima. Due indagini intricate, due incognite da svelare in un ambiguo gioco di specchi.
Un piccolo parere di lettura per un libro non entusiasmante, ma che rispetta i canoni del suo genere. Anzi, e forse questo è il suo limite, li rispetta proprio tutti ma nel complesso da l'idea di essere più un compito da scuola di scrittura creativa che un romanzo.
Pieno di colpi di scena, indizi lasciati un po' qui e un po' lì, pagine intere che portano ad un probabile cattivo e poi ti spiegano che quello che è successo è invece pienamente plausibile; ma... 
Ma, a me è sembrato, è solo scuola, manca di pathos, sembra solo (come anticipavo) un bel compitino.
Non che la lettura non sia stata piacevole: se state sotto un ombrellone e non avete grosse aspettative dal volume che avete un mano, questo Identikit di un incubo può far passare qualche ora spensierata. Ma niente di più.
I personaggi sono a scatola chiusa: di qua i buoni, di lì i cattivi, compresi quelli che si scopriranno poi i colpevoli; ha qualche guizzo intelligente, usa (ripeto ancora) bene il mestiere; tutte le sotto trame vengono al pettine; ma non va oltre.
E poi, soprattutto, il finale mi ha dato molto da pensare. Non il finale della trama poliziesca, che svela gli assassini proprio in ultimo, bensì l'epilogo generale. Si capisce benissimo e da subito che il libro è scritto da una donna, per una mano attenta ad alcuni particolari invece che ad altri, per alcune sottolineature dei personaggi e della storia. E in tutto questo non c'è niente di male; un punto diverso di vista fa sempre bene. Ma il lieto fine con tanto di matrimoni, amori ufficializzati, foto di gruppo, foto della protagonista che finalmente diventa poliziotta come il padre (e lo zio la potrà incorniciare vicino a quella del fratello/padre morto), mi è sembrato troppo da romanzo rosa. D'altra parte Heater Graham viene da quella sponda. Sicuramente se si fosse risparmiata quell'ultima paginetta e mezza, qualche punticino in più forse poteva spuntarlo.
In conclusione: non placet. Voto (più che altro per il linguaggio scorrevole): 6.

TIM

mercoledì 22 febbraio 2012

Stesura finale

Riscrivi, riscrivi, riscrivi...


La prima stesura richiede circa due mesi. Questo vale per tutti i miei libri. La prima stesura è troppo lunga, decisamente troppo lunga. È più facile dilungarsi che essere sintetici. Inoltre, la prima stesura è sintatticamente terribile. Un esempio, dalla prima stesura di un libro che scrissi anni fa: "La pistola cadde dalla mano dell'assassino, mentre lui cominciava a correre in fuga, zigzagando lungo il vicolo oscuro e tenebroso che si snodava contorto come una tortuosa arteria dell'Inferno." All'assassino non bastava correre: doveva anche zigzagare. Al vicolo non bastava essere oscuro, doveva anche essere tenebroso. E, da quanto ricordo della Divina Commedia, all'Inferno non ci sono arterie, tantomeno tortuose. La versione finale divenne semplicemente: "Scappò, lasciando cadere la pistola." Che cosa significa tutto ciò? Riscrivi, riscrivi, riscrivi. Arrivo a fare trenta quaranta cinquanta revisioni dei miei libri, prima di consegnarli all'editore.
(J. Deaver)
citazione da Elementi di tenebra, pg 165
(la sottolineatura è mia)


TIM





martedì 21 febbraio 2012

Storie esemplari di brava gente

guarda la piccola evasione in diretta
Sono polemico e scorretto, non me lo rinfacciate di nuovo, ma questi sono solo esempi:
Valentino Rossi,
Tiziano Ferro,
Luciano Pavarotti,
Giancarlo Fisichella.
Ora aggiungete i nomi che sapete e volete.
Sono ancora eroi nazionali?
La cosa brutta non è che abbiano evaso alle (anzi sulle) nostre spalle, ma che, legge permettendo, si siano lavati la coscienza con un'elemosina al fisco, cioè a tutti noi.
E, presto, qualche altra pietra dello scandalo.
TIM

sabato 18 febbraio 2012

Diciamo: No alla riduzione in schiavitù dello scribacchino!

qui
Metterò presto on line una petizione da firmare e inviare al Ministro del Lavoro Elsa Fornero.
Si tratta di una proposta di legge mirata ad eliminare la riduzione in schiavitù della casta degli scribacchini.
Si sa, infatti, che questa categoria ha la caratteristica di abbinare sempre l'uscita di un nuovo concorso ad una reazione orgasmatica di panico ed eccitazione contemporaneamente.





Da una parte c'è la consapevolezza che non si riuscirà mai a produrre qualcosa di decente per ogni occasione; dall'altra si reagisce ad impulsi inconsulti della psiche che impone di arraffare tutto quello che si trova in giro.
E allora ogni vento che porta sentore di concorso, prova d'autore, piccolo esperimento, ecc. diventa burrasca e non c'è verso di chiudere la porta che conduce al neurone letterario: quello entra e fa sconquassi. Sconquassi che si esplicitano in giornate passate a scervellarsi su: cosa scrivere; come far rientrare la storia nei parametri richiesti (ma perché poi devono essere per forza 600 caratteri? e come li calcolo compresi gli spazi? e...); la data di scadenza è lontana, ma si sa che in queste cose arrivi-sempre-all'ultimo-minuto; e allora comincio fra una settimana ma devo controllare l'altra scadenza.
È una vitaccia!
Adesso ci si è messo anche Ferru col suo dedica un racconto al tuo autore preferito due.
C'è da dire che la colpa è anche nostra. Perché quando lui ha iniziato sotto sotto a fare le prime battute tipo: ho pensato che forse..., mi piacerebbe...; mi sembra che lo scorso anno..., e via dicedo, avremmo potuto sparare un bel: **/*!??*! e la cosa sarebbe morta lì. Invece abbiamo voluto fare i buoni, gli educati e ora ben ci sta.
Perché ricordatevi che siamo ancora nei tempi per Racconti scelti della pandemia gialla, del crucco Alex (a proposito, da quando ha rimesso la foto dove compare impomatato in berlina d'ordinanza è più ganzo, fa più chic, non trovate?).
Così ci piace!
Purtroppo le brutte notizie non vengono mai da sole, perciò a leggere bene nei blog dei vicini di cella ci sono tutte le avvisagli per almeno altri due-tre richieste di partecipazione a concorsi, oltre a tutti quelli che vengono da case editrici, gruppi letterari, semplici esagitati della blogosfera.
Mi vengono sotto mano, solo per fare qualche nome, il Concorso di Scheletri; il progetto Risorgimento di tenebra (ho preso uno per tutti: Germano) del gruppo Moon Base... e si potrebbe continuare così.
Avete qualche altro titolo da fare?
Ho detto.


TIM

mercoledì 15 febbraio 2012

Scarabeo, di Michele Giuttari e Il Pub dei Pub di Gelo

Questa volta (a differenza dell'altra) ho riflettuto a lungo prima di scrivere queste righe  per dire cosa penso di un libro. Perché mi sembrava quasi irriverente riportare mie impressioni in contrasto con la maggior parte delle altre lette in giro su questo Scarabeo, di Michele Giuttari.
In parole povere a me questo libro, opera prima del super poliziotto siciliano trapiantato a Firenze, non è piaciuto, quasi per niente.
Acquistato nel solito mercatino dell'usato (avrete notato che compro pochissimissimi libri nuovi!) per 1 euro e nell'edizione che vedete nella foto, non più in commercio, mi aveva intrigato anzitutto perché di un autore italiano; poi perché di genere poliziesco; infine, ultimo ma non ultimo, perché si diceva chiaramente che la narrazione metteva in risalto i veri metodi d'indagine della polizia, con la descrizione delle procedure d'indagine e tutto il resto.
Vediamo anzitutto di cosa si parla:
Una Firenze indifferente e crudele che nasconde il segreto di atroci violenze; il capo della Mobile, Michele Ferrara, perseguitato da misteriose lettere minatorie; un giovane sacerdote e un giovane giornalista americano che, oltre alla bellezza, hanno qualcosa in comune; due giovani donne legate da un'amicizia morbosa; una catena di delitti efferati apparentemente opera di un maniaco; cadaveri sulle cui carni il coltello del killer ha disegnato alcune lettere dell'alfabeto che formano un messaggio di morte; un'abbazia sperduta nei boschi del Casentino dove l'enigma troverà la sua tragica soluzione... (da qui)
Detto questo dico subito che la narrazione è, a mio parere, lenta. Non ci si aspetta di sicuro inseguimenti in pieno stile noir americano, ma la narrazione procede in modo quasi didascalico, come se l'autore avesse una scaletta davanti e facesse il solo lavoro di riempire capitoli prestabiliti, senza che il minimo sgarro possa contaminare la storia. Manca quasi l'anima dei personaggi; non nel senso che non siano riconoscibili, ma che agiscono come pupi in mano al puparo, seguendo strade preordinate. Una volta iniziata la storia, sai già dove vuol andare a parare, quali sono i due-tre possibili scenari risolutivi.
Unico punto a favore è quello che, effettivamente, se il libro si legge da questo punto di vista, si ha una panoramica complessiva ed esauriente di come si conduce un'indagine: a chi ci si rivolge una volta scoperto il cadavere, quali sono i compiti delle singole figure giudiziarie, quali sono le gerarchie, ecc. Ma mi sembra un po' poco per una storia che vuol essere anzitutto un romanzo giallo.
Non ho letto nient'altro dell'autore, quindi non posso dire se ha solo pagato lo scotto dell'opera prima. Ma viene il dubbio (dalla lettura del singolo volume) che sia stato pubblicato solo perché scritto da uno famoso. E non voglio con questo ravvivare polemiche ataviche e corpose.
Alla fine il mio giudizio è: non placet. Voto: 6.
Colgo l'occasione, come suol dirsi, per segnalare qui un'iniziativa veramente interessante e utile di Raffaele Gelo SerafiniIl Pub di Pub, che è un divertentissimo gioco di parole per una cosa che, mi sembra, mancava nel giro dei blogger che hanno dedicato la propria vita alla scrittura, immolandosi sull'altare dell'arte e della sfiga. Il Pub di Pub ha lo scopo (ma dal link avrete tutte le informazioni che volete) di dare la possibilità a chiunque di segnalare ed eventualmente recensire qualunque racconto/romanzo trovato in giro per la rete in formato epub -da dove il secondo Pub del titolo. Sarà quindi un posto dove poter andare a saccheggiare titoli con cui rimpinzare per benino il proprio ereader e trascorrere tranquille e proficue ore di lettura. Un grazie di cuore a Gelo e alla sua compagnia, a cui chiunque può aggregarsi.
TIM

lunedì 13 febbraio 2012

La tragica fine di Alessandro Marzio

Wihitney Houston.
Marco Pantani.
Amy Winehouse.
Michael Jockson.
Alessandro Marzio.
Che differenza c'è tra tutti questi drogati? Nessuna, tranne che l'ultimo si pagava la propria morte in modo poco chiaro (forse, visto la fine che ha fatto); per le altre, invece, il mestiere era a conoscenza di tutti.
E non mi venite a parlare di artisti, campioni e ca**ate varie. Un drogato è un drogato, cioè: chi fa abitualmente uso di stupefacenti (qui).


TIM

sabato 11 febbraio 2012

Professione: vigilante, di Enrico Superina

qui
Stamattina l'ho finito. Mi sono messo comodo nella zona libreria del mio negozio, dove ho due poltroncine con un tavolino (un piccolo e pretenzioso angolo lettura), e ho divorato le ultime 40 pagine di questo Professione: vigilante, di Enrico Superina, Fratelli Frilli Editore, acquistato per un paio di euri dal mio pusher dell'usato di fiducia.
Come sempre vi rimando ad una recensione seria (questa volta con intervista all'autore) per sapere precisamente di cosa stiamo parlando. Io invece vi racconterò delle mie semplici sensazioni di lettura.
Ma prima il riassunto (dal risvolto di copertina): 
Vito Zarri, vigilante politicamente molto scorretto, è razzista, maschilista, puttaniere, alcolizzato e cocainomane. Porta in dote una vita segnata da violenze, culminata con l'abbandono da parte della sua donna, il cui ricordo lo perseguita ossessivamente. Ma come tutti i personaggi di questo tipo, Vito in fondo è solo uno sconfitto che ha reagito come poteva agli eventi della vita.
In una Genova scelta dal Governo come cavia per un progetto pilota consistente nell'affidare l'ordine pubblico di una parte del territorio agli istituti di vigilanza, Vito Zarri si trova a confrontarsi con l'immigrazione e gli ambienti dello spaccio e della prostituzione che pervadono i vicoli del centro storico. 
Dentro a un cassonetto della spazzatura viene trovato il corpo carbonizzato di una giovane donna, e la polizia incarica delle indagini l'istituto di vigilanza di cui Vito Zarri fa parte. Mentre la vita del protagonista si trasformerà progressivamente in una vera e propria discesa agli inferi, lentamente verrà alla luce una drammatica verità.
Professione: vigilante è un romanzo su un uomo che vive delle sue debolezze e le coltiva con forza e convinzione, ma sempre con la convinzione che, invece, siano i suoi punti di forza.
L'ho seguito in tutti i suoi su e giù per i vicoli e i posti più o meno raccomandabili di Genova e dintorni; ho aspettato un suo passo falso, un suo cedimento ad un'umanità che i personaggi di contorno in qualche modo alla fine mostravano. Ma lui niente: fin quasi alla fine; fino a che, cioè, è rimasto Vito Zarri il vigilante, il personaggio. Poi... poi non posso dirvi tanto di più, perché anche qui sta il bello di questa storia: che ti aspetti che accada qualcosa e quando succede non è proprio come te l'eri immaginata. O forse qualcosa in te ti diceva che sarebbe andata a finire in quel modo, ma mai e poi mai avresti voluto intimamente che quella era la verità.
Vito Zarri è cattivo, è indisponente, è inaffidabile, è senza cuore, razzista, perché è così che lui riesce a mantenersi vivo: lontano dal più piccolo sentimento di umanità; perché sa che appena mollerà per un attimo la maschera non avrà scampo.
Vito Zarri lo odi, da subito, perché in un personaggio di un libro tu ti vuoi e ti devi immedesimare, è una delle prime regole che si imparano alla scuola della scrittura (scrivi di qualcuno in cui il lettore può riconoscersi). Invece con lui è diverso: vorrebbe essere come lui?
Eppure lo segui in tutto ciò che fa, vuoi sapere sempre tutto di quello che pensa e che programma; e anche se un poliziesco (noir come specifica l'autore) ha bisogno di un morto ammazzato e di un indagine che faccia confluire tutto verso il disvelamento dell'assassino, anche se in questa storia una morta carbonizzata c'è, non ti interessa più di tanto sapere chi è stato, perché devi stare dietro ad un'altra storia, quella della guardia scelta Vito Zarri, di quel figlio di puttana Vito Zarri.
Poi d'un tratto Vito comincia a sentire delle voci nella sua testa e la storia prende un'altra piega, con tanto di finale (quasi) a sorpresa.
C'è questo e molto di più in Professione: vigilante, e tutto quello che c'è a me è piaciuto. Non starò a fare sofismi, a stabilire se Enrico Superina è un genio alla stregua degli scrittori maledetti, o solo uno scopiazzatore di Cormac McCarty o di Chuk Palahniuk che ha avuto la fortuna di azzeccare l'opera prima e ultima (a proposito: per quanto abbia cercato, mi sembra che abbia scritto solo questo libro).
Così alla fine non posso che darvi un consiglio: cercatevi questo libro e leggetelo, perché anche se non sarà un capolavoro, vi farà vedere la vita e le cose da un altro punto di vista, molto poco politicamente corretto e veramente bastardo dentro.
Permettetemi solo un'osservazione sulla casa editrice: la Fratelli Frilli mi è stata sempre simpatica, da quando la scoprii con Bruno Morchio e il suo Bacci Pagano, soprattutto perché propone opere (tendenzialmente sul giallo) di gente nuova, spesso fresca, che radica bene le proprie storie sul territorio, che sia Genova o il Piemonte o giù di lì. E anche il nostro amico Danilo Arona ha pubblicato con loro.
Quindi il libro placet. Voto 8,5.
Ragazzi vado, che mio sta tornando il prurito nei polpastrelli. Devo scrivere.


TIM



martedì 7 febbraio 2012

Racconto a puntate: Capello Liquido (VII)

E siamo alla fine.
Ormai avrete capito tutto di questo raccontino senza molte pretese, perciò vi lascio alla lettura della conclusione, e vi do appuntamento ad qualche altra storia, sperando che questa sia stata di vostro gradimento. E se così è, io vi ringrazio e voi fatemi cenno d'un piccolo commento.



15/17.12.2001
«Ma guarda quell'imbecille, contromano, senza cintura di sicurezza e pure col telefonino all’orecchio» disse Mario, e la sua voce rimbalzò all’interno dell’abitacolo. Un’auto gli era appena sbucata all’improvviso davanti in un senso unico e lo aveva costretto a stringersi verso il marciapiedi, ma la cosa che più lo aveva disturbato era l’aria serafica e sicura del tizio alla guida, come del nonno che sta tranquillamente accompagnando il nipotino all’asilo.
Istintivamente guardò nello specchietto retrovisore e focalizzò tipo di auto e targa: Fiat Punto, amaranto metallizzato, AL 50… (i puntini sono per la privacy). Si lisciò i capelli e pensò che non sarebbe stato proprio un giochetto da ragazzi rintracciarla, ma ci sarebbe riuscito.
Sicuramente.
La caccia durò una notte e mezza.
Aveva diviso la probabile zona di residenza del maleducato in tre fasce, avendo come punti di riferimento negozi e piazze.
La sua città era piena di belle aree di verde attrezzato. Così si fa’, amava dire a tutti, non come in altre posti dove il verde, se c’è, serve solo da deposito per siringhe e preservativi, entrambi usati. Avrebbe saputo lui cosa fare se solo gli avessero dato mano libera; ma si sa, ai posti di comando vanno solo quelli che non sanno governare neanche la propria casa e alla fine si ritrovano pure con un bel paio di corna in testa e la moglie in qualche letto a ore. Immaginiamo amministrare una città!
Essendo diventato ormai un animale notturno, quella caccia lo elettrizzava. Era padrone della città e godeva un mondo a parcheggiare la macchina e girare a piedi. Conosceva ormai tutti i tipi che, come lui, preferivano la luna al sole e li incrociava spesso, in gruppi o da soli. Certo i più strampalati erano quei ragazzi con i capelli colorati e pieni all’inverosimile di orecchini (ma quelli che si mettono al naso come si chiamano: nasini?, e giù una risata a squarciagola nel silenzio della città deserta). Ma a lui non interessava: che ognuno si facesse le sue cose, lui aveva la sua parte di città e se la godeva sino in fondo.
Era strano come fino a qualche mese fa non si sarebbe nemmeno lontanamente sognato di rinunciare alle sue ore di sonno per scorazzare in giro. Ora invece non riusciva neanche ad addormentarsi se fino all’una le due di notte non aveva respirato un po’ di sana e robusta aria notturna, bella dura, piena di tutte le storie che il giorno aveva lasciato e che a Mario piaceva andare a rintracciare negli angoli.
Qui, probabilmente, la signora della panetteria sotto braccio al marito aveva incrociato il suo amante e lo aveva salutato con un piccolo segno del labbro e abbassando gli occhi; sotto quel portone una ragazza aveva mandato a quel paese il suo boy friend perché non voleva accompagnarla al cinema quel pomeriggio: doveva studiare, lui!
Ma non era solo quella la novità nella vita di Mario. Il fatto che lo rendeva più felice era che i capelli continuavano a crescere, e come crescevano! Non solo robusti e forti, ma addirittura da radi, lisci e castani, stavano diventando folti, neri come la sua notte e soprattutto ricci. E così si piaceva di più, non c’era dubbio. Non più lo slavato quarantenne che se l’era fatta sotto durante la rapina in banca, ma allo specchio al mattino aveva davanti un energico teen-ager pronto a tutto, che avrebbe affrontato qualsiasi avversità o capoufficio che fosse. Sì, si sentiva proprio bene ora.
Aveva ancora, ogni tanto, come dei rigurgiti di un’altra vita, che sapeva essere stata la sua, ma che non riconosceva minimamente adesso: erano solo momenti, piccole indecisioni, pensieri veloci che impiegava meno di un attimo a scacciare. Quello che non aveva ancora capito bene era il perché di questo cambiamento; ma a lui non importava la causa, bensì l’effetto, e questo era certamente benefico.
Aveva trovato l’auto del senso vietato verso le due e mezzo di una notte come piaceva a lui: fresca e leggermente umida, odorosa di una nebbiolina che stava scendendo. Certo la sua ricerca non era stata facilitata dal colore della macchina, perché alla luce dei lampioni gialli, da lontano, l’amaranto si confondeva facilmente con altre tonalità. Perciò aveva dovuto controllarle una per una, non era bastato dare un’occhiata dall’angolo della strada.
Ma alla fine eccola lì, davanti a lui. Ai suoi occhi sembrava avere un’aria quasi rassegnata, quasi conscia che quello che stava per accadere era la giusta conclusione per i misfatti che il suo padrone le aveva fatto sicuramente commettere in tanti anni di strada.
Mario estrasse da una delle decine di tasche del suo gilet un temperino, se lo lisciò per un po’ sulla mano aperta, osservando la sua vittima, quasi a non saper decidere da quale parte cominciare. Sicuramente alla fine l’avrebbe bruciata (aveva la tanica di benzina nel cofano della sua auto), ma prima voleva divertirsi un po’.
Sì, avrebbe cominciato, naturalmente, dalle gomme, che prese subito a incidere col coltellino. Poi un colpo secco ad ognuna, e il sibilo dell’aria che usciva annunciò che erano andate. Nell’alzarsi urtò con la spalla volontariamente lo specchietto retrovisore facendolo saltare completamente; quindi si girò e disse al pezzo ormai a terra col vetro frantumato: «Scusa, non l’ho fatto di proposito.»
Si accorse che si stava lisciando i capelli e per un attimo pensò che era un gesto prima inusuale per lui, ma che ora era diventato frequente. Ma fu solo un attimo: aveva ancora davanti un bel po’ di lavoro e c’era sempre il pericolo che qualcuno lo vedesse o sentisse.
Non avrebbe aperto l’auto perché lui non era un ladro, perciò estrasse una ventosa e una punta diamantata di quelle in uso ai vetrai e fece una grande ‘O’ sul lunotto posteriore e un’altra su quello anteriore. I fari erano lì, invitanti, a portata di piede, ma il fracasso avrebbe potuto attirare qualcuno. Spezzò invece l’antenna della radio e prese a girare attorno all’auto facendo una serie di  righe col temperino sulla carrozzeria.
Ora era il momento più emozionante, quello del falò.
Andò a prendere la sua auto, parcheggiata all’altro isolato; la fermò poco distante dalla Punto, tirò fuori la tanica della benzina e ne versò il contenuto sulla vittima, facendo attenzione a inzuppare ben bene le ruote e i sedili (anche per questo aveva praticato i due fori sui vetri). A quel punto era questione di pochi secondi: prese il pezzo di stoffa lunga più o meno un paio di metri che aveva portato con se, e la imbevette nella benzina che aveva lasciato da parte, facendone una miccia. Quindi mise la tanica coi residui di carburante all’interno della Punto, facendola passare sempre attraverso il foro, e vi inserì un capo della miccia; gli diede fuoco e scappò verso la sua auto.
Ebbe il tempo di salire in macchina, partire a tutta birra e vedere nello specchietto retrovisore la propria vittima ormai avvolta dalle fiamme.
Si lisciò ancora una volta i capelli, ghignando appagato.
qui

11.09.2001
«Hai sentito il macello di New York? Booom! Quegli aerei, il fuoco, tutta quella polvere, mi sembra di averla anch’io nel naso!» Stefano (un anno e due mesi per borseggio continuato) a Enzo dalla sua brandina.
«Eh, beh, per fortuna c’è ancora un po’ di sana violenza in giro. Certe cose o ce l’hai dentro o niente. È questione di geni, di DNA!» Enzo, lisciandosi i capelli in un sogghigno.

FINE


TIM

lunedì 6 febbraio 2012

Racconto a puntate: Capello Liquido (VI)

Da questa puntata la storia entra un po' più nel vivo, anche se già la volta scorsa qualcosa ha cominciato a succedere, almeno nella vita di Mario. Oggi è la volta di Enzo, che riceve una strana visita in carcere, e questo colloquio spiega molte cose...


Capello Liquido
30.05.2001
Enzo si tirava dietro il mocio con tutto il secchio pieno d’acqua sporca e ogni tanto dava qualche colpo al pavimento, ma non ne aveva proprio voglia. Sapeva che dopo sarebbe passato il secondino a controllare il suo lavoro, ma non gliene importava niente: in fondo che potevano fargli? Al massimo gli avrebbero allungato di qualche giorno il turno delle pulizie.
Non vedeva l’ora di tornare nella sua cella e sdraiarsi sulla branda. Era stanco, non tanto per il lavoro, ma per i ritmi di quel posto, sempre gli stessi: a quell’ora la sveglia, a quell’ora la colazione, a quell’ora la passeggiata… c’era un’ora per ogni cosa. No, questo non faceva per lui che era sempre stato refrattario alle cose imposte o anche solo stabilite prima da altri. Enzo, ad esempio, odiava i puzzle: perché le tessere dovevano andare al loro posto e non dove lui voleva metterle? Se lui aveva voglia di fare una cosa la doveva fare, anche per questo aveva comprato una moto invece che un’auto.
Priscilla era il simbolo della sua libertà, della sua possibilità di rompere ogni regola, andare dove una macchina non poteva andare, non essere obbligato a portare nessuno che gli stesse sulle scatole (chi si sarebbe azzardato a chiedergli un passaggio dopo aver sperimentato la sua guida al limite?). Priscilla era l’amante ideale e insieme formavano la coppia perfetta: lei era sempre lì, docile, obbediente ai suoi colpi di gas e alle sue frenate improvvise, non chiedeva mai niente ma aspettava sempre che fosse lui a darle il necessario. E se per qualche giorno o settimana Enzo aveva altro per la testa e la lasciava in garage, Priscilla non protestava né metteva il muso: restava ad attendere che il suo padrone tornasse a sentire il bisogno di lei.
E in quel momento Enzo sentiva forte il bisogno di Priscilla, aveva nostalgia dell’odore della gomma delle manopole del gas e della marce, del freddo del serbatoio in mezzo alle cosce, dei moscerini spiaccicati sulla visiera del casco; sì, anche di quelli.
Era quasi arrivato alla fine del lungo corridoio e per quel giorno aveva finito, per fortuna. Stava strizzando il mocio nell’apposita vaschetta del secchio, quando il ben noto rumore di chiavi che entrano e girano nella serratura lo fece voltare. Dall’altra parte del cancello che divideva in due il corridoio del reparto vide Paolo, l’enorme guardia penitenziaria di turno quella mattina (mille volte meglio lui di Gesualdo, quello sempre con la puzza sotto il naso); accompagnava un uomo sulla cinquantina che non conosceva, con una borsa da persona importante per mano e nientemeno che il vicedirettore: sicuramente doveva trattarsi di una cosa importante.
Cercò di immaginare chi potessero andare a cercare. C’era il tipo della 32, quello che aveva chiesto la revisione del processo, ma il suo avvocato era andato a trovarlo il giorno prima, e poi per queste cose c’è la stanza delle visite. Qualche ammalato? Dovrebbe essere in infermeria non in cella. Era proprio strana quella visita. Tornò a far finta di pulire.
«Ghezzi!» la voce tonante di Paolo.
Si fermò e si voltò appoggiandosi al palo di ferro con cui stava lavando.
«Vieni qui che c’è qualcuno che ti deve parlare.»
E che volevano adesso? Non aveva fatto niente di male negli ultimi tempi per cui potesse esser ripreso.
Enzo e il gruppo dei nuovi arrivati si incontrarono a metà corridoio.
L’uomo con la borsa cominciò a fissarlo attentamente in testa. Gli girò attorno, alzandosi sulle punte dei piedi perché era più basso di lui, poi  rivolgendosi a Paolo:
«Posso toccarglieli? »
«Ehi, calma, calma» protestò vivacemente Enzo, che già in quel frangente non era dell’umore giusto per fatti suoi. «Chi è questo e che vuole da me? E poi cosa dovrebbe toccarmi? Sono io che decido se qualcuno può mettermi le mani addosso. E in questo momento non gira per niente bene» e nel dirlo si ritrasse dai tre.
Il vicedirettore si tolse gli occhiali e prese a pulirli con la cravatta, segno che stava per parlare e dire cose importanti.
«Vedi Enzo, questo signore è il dottor Pizzamiglio, di una nota casa farmaceutica, che ha messo a punto uno shampoo che utilizza  dei capelli veri, che siano forti e sani, per nutrire altri capelli che invece sono fragili e malati. Ma di questo aspetto ti parlerà meglio lui. Siamo venuti da te perché lui ci ha chiesto se tra i nostri ospiti c’era qualcuno che fosse dotato di una bella chioma da utilizzare per questo prodotto, e noi abbiamo pensato subito a te.»
E per stuzzicare la sua baldanza e renderlo più collaborativo continuò subito: «Ritengo che sarai ben contento di dare qualche capello ogni tanto per la scienza.» Poi, gettandola sullo scherzo: «E pensa a quanta gente andrà in giro con la testa lavata con lo shampoo fatto coi tuoi capelli!» e rise quasi di gusto.
«Fatemi capire bene la cosa perché devo essermi perso qualche puntata della Ruota della fortuna» intervenne Enzo, stupito, sulla risata del vicedirettore.
«Vede signor Ghezzi» adesso era il dottore «non voglio scocciarla con spiegazioni scientifiche che a lei certamente risulteranno noiose e inutili. Ma per farla breve le dirò solamente che abbiamo messo a punto uno shampoo che, come ha appena accennato il vicedirettore, ha come base il capello liquido. Noi scegliamo delle persone che abbiano dei capelli perfetti, sani, forti. Quando vanno dal barbiere per il normale taglio, chiediamo loro di non buttar via i capelli, ma di darli a noi, che paghiamo per questo sevizio, e devo dire anche abbastanza profumatamente. Poi… »
«E quanto sarebbe?» interruppe Enzo che aveva subito alzato le antenne alla parola paghiamo.
«Diciamo che varia a secondo della qualità del capello. Ce ne sono alcuni tipi che si trovano facilmente, e per quelli c’è una cifra. Altri sono più rari per la loro lucentezza e purezza dei componenti, e qui si parla di bei soldini, diciamo pure sui…» pausa per far calare ben bene le braghe all’ascoltatore interessato «cento euro a taglio.» Quindi riprese con aria professionale: «Naturalmente i capelli devono pesare almeno cinquanta grammi per volta, e ogni volta vengono analizzati per controllare che la qualità sia la stessa del primo taglio. Stavo comunque dicendo che una volta presi i capelli dopo il taglio, vengono portati… »
«Non mi interessa niente di cosa ne fate dei miei capelli. Io ve li do, voi sganciate la grana e l’affare è concluso.» Anche se con un mocio in mano, Enzo non aveva perso la sua capacità di fiutare un affare e afferrarlo al volo.
«Beh, certo, dal suo punto di vista lei ha ragione» riprese il dottor Pizzamiglio «comunque prima di concludere l’affare come dice lei, dobbiamo analizzare i suoi capelli per vedere se sono realmente adatti al nostro scopo, come d'altronde sembrano ad una prima osservazione esteriore.»
«Analizzate pure tutto quello che volete, vi assicuro che il mio articolo è il migliore sul mercato.» Ed era veramente entusiasta.
E non solo per il vile -come dice chi ce l’ha- denaro, ma anche perché la mente di Enzo aveva partorito l’idea che era bello sapere che qualcun altro potesse andare in giro con i suoi capelli in testa. Si, lo sapeva che non è che glieli trapiantavano, ma erano pur sempre i suoi capelli che andavano a nutrire, come aveva detto il vicedirettore, quelli di un povero sventurato con un problema in testa. E magari, con quell’operazione, gli passava anche un po’ del suo ingegno, come il latte delle poppe della mamma nutre il bambino e gli passa le sostanze di cui ha bisogno.
Enzo Ghezzi, detenuto numero 879023, di turno alla pulizia dei corridoi del carcere di…, era orgoglioso di sé stesso e del bene che avrebbe fatto all’umanità.  
(... continua... )


TIM

sabato 4 febbraio 2012

Racconto a puntate: Capello Liquido (V)

Beh, vediamo di ricapitolare.
Enzo, il cattivo, fa una rapina dove ci scappa il morto, anzi due, visto che alla fine prima di fuggire dalla banca uccide il suo compare ferito. Dopo una fuga in moto e il ritorno a casa, viene però arrestato dalla pula, che lo scopre proprio grazie al numero di targa di Priscilla, il suo bolide a due ruote.
Mario, il buono, è alle prese con un problema... tricotico e chiede disperato al suo barbiere di fiducia (ma non troppo!) una soluzione alla caduta dei capelli. Pino, il coiffer, gli parla di un nuovo preparato: il capello liquido.
Fin qui due storie a sé stanti e che si svolgono in due momenti diversi: se ancora non avete fatto caso (ma qui è la parte importante di tutta la storia!) quella di Mario si svolge dopo quella di Enzo e questo fa una bella differenza ai fini del contenuto!
Ma adesso si comincia già ad intuire qualcosa, visto che...

Capello Liquido
3.10.2001
Pino, il barbiere, non aveva lo shampoo al capello liquido perché il rappresentante non era ancora passato quel mese e non aveva potuto farne l’ordinazione; perciò suggerì a Mario un negozio proprio vicino al suo ufficio.
Mario era un discreto contabile e da circa vent’anni lavorava in un’agenzia per il disbrigo di pratiche di ogni tipo.
Era il più anziano del gruppo, ma anche un po’ il fantozzi della situazione (in ogni ufficio si assume sempre un tipo del genere dopo l’uscita dei libri di Villaggio), non perché fosse imbranato, questo no, ma perché non era mai capace di esser scortese, di rifiutarsi di coprire qualche mancanza dei colleghi, di fare il loro lavoro se questi avevano bisogno di uscire prima o arrivare più tardi o semplicemente non avevano voglia di farlo. D’altra parte Mario non era sposato e poteva gestirsi la vita come voleva.
Aveva acquistato lo shampoo un paio di giorni dopo il consiglio del barbiere e aveva cominciato a usarlo da subito. Ogni mattino lavava i capelli prima di andare a lavoro, e come succede sempre quando qualcosa riguarda noi stessi o le persone vicine, all’inizio non aveva notato alcun cambiamento. Finché un giorno di qualche settimana dopo, il giornalaio gli aveva fatto i complimenti per i suoi capelli che sembravano essere resuscitati; aveva detto proprio così: resuscitati. Mario ebbe come un colpo e quasi corse fino all’angolo dell’isolato dove c’era una vetrina a specchio in cui potersi guardare.
Era vero: quel cranio che aveva davanti, e che era innegabilmente il suo, si stava coprendo nuovamente di capelli, le zone scoperte erano sempre meno evidenti.
Doveva avere uno sguardo estasiato o per lo meno strano se una donna con un bimbetto per mano, passando vicino, gli diede un’occhiata perplessa e accelerò il passo.
Era tentato di tornare a casa e confrontare il Mario che adesso vedeva nello specchio con quello della foto scattata a Pasqua in montagna. Ma era tardi e doveva andare in ufficio: quel giorno doveva aprire lui perché Giovanna, a cui spettava normalmente l’incombenza, aveva da sbrigare non sapeva quale cosa urgente, cosa che peraltro le capitava ormai sempre più spesso negli ultimi tempi.
A pensarci, la situazione cominciava a infastidirlo e si sentiva quasi preso in giro, anche perché i suoi colleghi facevano spesso strane battute su quest’andazzo. Il suo capo, d’altra parte, non sapeva niente di quello che succedeva: a lui interessava solo che tutto fosse fatto per bene e i clienti fossero soddisfatti; chi, come e perché non erano domande che si poneva.
Certamente quella mattina sarebbe andato ad aprire l’ufficio, ma sarebbe stata l’ultima volta, al massimo la penultima, su questo sarebbe stato chiaro con la collega indaffarata.
D’un tratto si meravigliò quasi di questi pensieri di ribellione che gli frullavano per la mente.
Ma non fu l’unico pensiero né l’unico fatto che lo fece meravigliare quel giorno.
Aveva terminato il suo turno in ufficio alle 16.00. Lasciò scrupolosamente le consegne al giovane che faceva le ultime ore fino alla chiusura (poca voglia di lavorare, come tutti i giovani d’oggi, aveva sentenziato richiesto dal suo capo) e si ricordò di dover fare un po’ di spesa.
Il discount era pieno a quell’ora ed era riuscito ad accaparrarsi l’ultimo carrello libero rimasto. Per fare ciò  aveva dovuto quasi gareggiare con la bionda che era arrivata insieme a lui nel piazzale.
Mario si era preoccupato di parcheggiare per bene l’auto, lasciandola  all’interno delle strisce predisposte; la bionda, invece, aveva messo la sua praticamente davanti all’entrata del negozio, ostruendo anche in parte lo scivolo per gli handicappati. L’assistere a questa scena gli aveva fatto salire il sangue alla testa. Non poteva passarla liscia una persona come questa, aveva pensato, perciò quel carrello doveva essere suo. Essendo in svantaggio sulla bionda che era già nella corsia (la sua auto era proprio davanti al posto dei carrelli), gli restava una sola alternativa: scavalcare i paletti in ferro che delimitavano il corridoio. Fu quello che fece, piombando proprio tra la bionda e il carrello. Estrasse con tutta calma il portamonete dalla tasca, tirò fuori le cinquecento lire (che in questi casi sostituivano ancora egregiamente l’euro), le inserì nell’apparecchietto sul manubrio e sganciò il carrello dalla catena. Solo allora si girò per uscire dalla corsia, e fece un largo sorriso alla bionda, che per tutto il tempo l’aveva guardato prima sbigottita, poi irritata, infine inviperita.
«Mi permetta» le disse con sguardo angelico passandole davanti col proprio trofeo.
Giovanna non avrebbe creduto ai propri occhi.
Mario si lisciò i capelli attendendo un attimo che le porte automatiche del discount si aprissero.
Non aveva una lista scritta, come usava fare sempre quando andava per la spesa (il lunedì cominciava a scrivere ciò che occorreva in casa sulla lavagnetta appesa in cucina e prima di uscire copiava l’elenco sul foglietto di carta meticolosamente ritagliato da qualche volantino o retro di fotocopia che prendeva in ufficio) ma sarebbe andato a memoria.
Iniziò il viaggio nelle corsie: il pane (lo prendo dal fornaio), la frutta e la verdura (qui non sono buone), lo zucchero e il latte (questi sì, giù nel carrello), le caramelle e i Mars.
Qui Mario si fermò un istante. L’acquolina si stava già formando in bocca: i Mars gli erano sempre piaciuti per come crocchiavano prima e si spalmavano sulla lingua poi. Ne guardò il prezzo ed era esagerato per la sua tasca. Non per il costo di quel prodotto specifico in sé, ma si conosceva e sapeva che se si fosse messo a comprare tutte le leccornie che vedeva e bramava, non gli sarebbe bastato lo stipendio di una settimana ogni volta che faceva la spesa.
“Una soluzione c’è.”
“Quale?”
“Basta non pagare.”
“Ma che dici?!”
Ma chi è che parlava e rispondeva? Era fermo ancora davanti ai Mars ed era stato testimone auricolare di quella conversazione tra chissà chi.
“Dai, prendili e mangiali sul posto, prima di arrivare alla cassa, chi vuoi che ci faccia caso o gliene ne importi qualcosa. Oggi come oggi per fortuna ognuno si fa i fatti suoi.”
La voce stava parlando sicuramente con lui.
«Ma no, dai, è un furto!» rispose quasi articolando con le labbra le parole.
Quante volte anche lui si era arrabbiato nel vedere confezioni mezze vuote lasciate sugli scaffali, segno che qualcuno aveva consumato il prodotto senza naturalmente arrivare a pagarlo. Però, adesso, doveva dire che l’idea l’attirava quasi, non per il senso di sfida e pericolo, ma per il semplice gusto di farlo: voleva il Mars, non voleva pagare, l’avrebbe semplicemente preso e mangiato lì.
Si lisciò i capelli (era sempre più soddisfatto che stessero ricrescendo sani e forti, anche se ricci) e mise nel carrello una confezione del cioccolato ripieno di caramello mou.
Il tempo di entrare nella corsia successiva e aveva preso il Mars, l’aveva scartato con noncuranza e l’aveva addentato: che estasi per il palato! In due morsi aveva fatto fuori il primo e, il tempo di arrivare allo scaffale del tonno (ne prese tre scatolette), ne aveva terminato con grande soddisfazione la confezione intera.
Ehi, l’aveva fatto! Lui aveva preso una confezione di Mars e l’aveva mangiata senza pagare: Mario Vespolate stava per rubare!
Eppure non si sentiva tanto male, interiormente voglio dire.
L’eroico gesto, comunque, era ormai stato compiuto. Si trattava di scegliere: andare alla cassa e consegnare la confezione vuota (sarebbe bastato il barcode per pagare) oppure abbandonare l’incarto in uno scaffale.
Il combattimento tra sé e sé stesso (che poi erano quelli che avevano interloquito tra loro prima) era ormai agli sgoccioli.
“Ma sì, in fondo i negozianti sono assicurati contro queste, diciamo così, piccole perdite. Cosa vuoi che sia un Mars.”
“Ma non è il Mars in sé, è che…” cercava di resistere.
“Cos’è, adesso ne fai una questione di principio? Però prima te lo sei sbafato il cioccolato, t’è piaciuto! Ammettilo, era buono e tu l’hai mangiato. Punto. Nessuno ti ha visto e tutto finisce qui. Devi pensare di più a te stesso caro mio, tu non ti vuoi abbastanza bene.”
“Adesso sei tu che fai il filosofo. E poi non è giusto e basta.” Breve pausa di acuta riflessione. “Almeno credo” concluse.
Era fermo a fissare gli assorbenti da donna e la cosa dovette sembrare alquanto singolare alle persone che gli passavano accanto ma non potevano di certo assistere al duello che si stava svolgendo nella sua testa.
Mario si accorse di quegli sguardi attorno a lui, e riprese a girare a vuoto per le corsie, in attesa della decisione finale.
Vedeva, in lontananza, le casse. Si avviò con decisione verso quel punto tenendo in mano l’involucro vuoto del Mars. A pochi metri dall’arrivo allungò il braccio e depositò la confezione tra le bottiglie di Reggiano Lambrusco Secco.
Pagò i suoi 14,39 euro (che non comprendevano naturalmente il Mars) e uscì come era entrato, spingendo il carrello.
Era tranquillo, anzi soddisfatto. Certo, i suoi nuovi capelli lo stavano facendo sentire meglio, molto meglio. Si andava convincendo sempre più che era senz'altro vero quello che diceva certa pubblicità: se sei bello fuori, ti piaci anche dentro.

(... continua... )


TIM
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