martedì 31 gennaio 2012

Maestri

"Il capitale non è malvagio in sé; è il suo uso sbagliato che è malvagio. Il capitale, in una forma o un'altra, sarà sempre necessario. "


"È meglio essere violenti, se c'è violenza nei nostri cuori, piuttosto che indossare l'aureola della nonviolenza per coprire la debolezza. La violenza è sicuramente preferibile alla debolezza. C'è speranza per un uomo violento di diventare non violento. Non c'è questa speranza per i deboli."


"Non vale la pena di godere di diritti che non derivino dall'aver compiuto il proprio dovere."


"Io credo nella teoria del "diritto alla resistenza", secondo cui è legittimo – se non doveroso – che le masse popolari si ribellino alle autorità sociali e politiche, quando subiscono un'evidente e intollerabile situazione di ingiustizia."


"Io e te siamo una sola cosa: non posso farti male senza ferirmi."


Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma
(Porbandar 2 ottobre 1869 - Nuova Delhi 30 gennaio 1938)


lunedì 30 gennaio 2012

Racconto a puntate: Capello Liquido (II)

Seconda puntata del mio Capello Liquido!
Altri e più esimi colleghi ci stanno dando in questi giorni con racconti a puntate, mini ebook e chi più ne ha più ne metta. Perciò, pur non azzardando a mettermi sul loro livello, penso  che più carne c'è al fuoco e meglio è per tutti.
Ma prima devo chiedere scusa all'amico Ariano, perché la scorsa volta non ho reso merito al suo lavoro sul racconto. Come sempre, infatti, c'è il suo zampino di editor in quello che state leggendo, poiché Capello Liquido, come vi avevo detto, era stato scelto per partecipare alla  Collana Gemini, e quindi era prima passato dalle sue mani.
Dato ad Ariano quel che è di Ariano, ecco a voi la seconda puntata delle avventure di... eh già, ancora non si sa niente della storia, visto che la scorsa volta era solo un'overture. Perciò non metto tempo in mezzo e pubblico.
Sento già che Isaac Asimov sta tremando (o si sta rivoltando nella tomba? dal rumore non si capisce... ), perciò buona lettura!



23.03.2001 (al mattino)
Era proprio in ritardo.
Per Mario essere in ritardo era uno dei peccati più gravi, non verso gli altri, ma verso se stesso.
Già si vedeva entrare in banca, guardare desolato le panche d’attesa già piene, con persone anche in piedi e solo due impiegati agli sportelli. La mattinata era praticamente andata.
Probabilmente non era così, ma tutto il percorso da casa alla banca (fatto rigorosamente a piedi, perché trovare un parcheggio nelle vicinanze era come vincere un terno al lotto) l’aveva trascorso ad immaginare questi scenari allucinanti. D’altra parte erano già (guardò il suo Seiko con la ghiera blu e i giorni del datario che venivano fuori da una corona all’interno dell’orologio)... le 8.35, le porte erano state aperte da dieci minuti e sicuramente oggi c’era qualche pagamento particolare per cui mezza città si sarebbe riversata in banca.
Entrando attraverso le porte scorrevoli della cabina d’ingresso cercò di non guardare verso l’interno, ma un’occhiata dovette darla per forza: non male alla fin fine, e calcolò un quarto d’ora di coda. Dalla distributrice posta a sinistra prese il suo numerino: 64, tempo d’attesa: 10 minuti circa. Guardò istintivamente il display in fondo alla sala, quello che indicava quale numero si stava servendo in quel momento, e la sua ansia ebbe un attimo di sosta: 57. La previsione della macchinetta eliminacode doveva essere quasi esatta.
Sedette e riprese, purtroppo, a far funzionare il cervello: speriamo che non ci sia un operatore–lumaca, o la solita cinquantenne che scambia lo sportello della banca per la sedia della manicure e sente il bisogno di riassumere l’ultimo mese di vita condominiale; a partire dalla colecisti del maggiore Buffalino, fino alla bocciatura in diritto civile della figlia della separata del primo piano; ma si sa che questi ragazzi che rientrano tutte le notti alle due, le tre, senza sapere chi frequentano… e quella povera madre che fa i salti mortali per farla studiare perché l’ex marito non vuole sganciare una lira per l’università…
Intanto nell’aria si era sparso nuovamente il dlong dal display e il numero era diventato 60. Mario guardò per l’ennesima volta il suo tagliandino, quasi nella speranza che qualche gnomo gliel’avesse cambiato mentre lui era distratto e che ora fosse diventato, che so, 62. Era sempre 64, però ormai c’eravamo quasi e c’era sempre la possibilità che il 61 o il 62 avessero rinunciato decidendo di ripassare più tardi.
Dlong: 61. Dlong: 62.
In quel momento entrò la guardia giurata che era fuori a sorveglianza dell’ingresso. Evidentemente, pensò Mario osservando attentamente l’espressione sofferente dell’uomo, aveva urgente bisogno di un bagno.
Dlong: 63 (sportello 5).
Vide il signore dello sportello 3 (il 62) salutare il cassiere e capì che stava per suonare nuovamente il campanello, questa volta per chiamare lui. Estrasse dalla borsa i suoi documenti, si alzò e si avviò verso la cassa.
Colse il gesto della mano del cassiere che premeva il pulsante per chiamare il prossimo cliente. Ma stranamente il suono che si udì non fu quello dal display, ma una serie di colpi secchi, a raffica, provenienti dalla porta d’ingresso. Mario si girò di scatto verso quel punto, insieme a tutti i clienti e il personale della banca, e tra le urla di tutti i presenti vide due uomini incappucciati armati di mitra che sparavano contro il soffitto. Finita la scarica, uno dei due rimase vicino alla porta puntando l’arma che aveva in mano verso la sala, mentre l’altro si era avvicinato allo sportello più vicino.
«Fate tutti silenzio. Se nessuno si muove e ci date i soldi, facciamo in fretta e ce ne andiamo subito» urlò da sotto il passamontagna quello che era rimasto a guardia dei presenti, che ubbidirono per quel che potevano: si fece un silenzio assoluto.
L’altro si fermò davanti alla cassa 1, la più vicina.
«Dai sbrigati, non hai sentito il mio amico, caccia fuori le mazzette, i tuoi e quelli dei tuoi colleghi, e mettili in questo sacco» e glielo porse, «e niente scherzi, il mio amico è un tipo con poca pazienza. Vero socio?» – disse rivolto all’altro.
Il quale per tutta risposta esplose un’altra scarica verso il muro di fronte, facendo saltare tutti i manifesti, l’orologio e il display.
Il cassiere era rimasto immobile, incapace di fare qualsiasi cosa.
«Che c’è, vuoi fare il furbo? Non hai capito che facciamo sul serio» gli gridò il rapinatore dall’altra parte del vetro. Poi si girò verso il compare: «Fai vedere al signore cosa succede se non si sbriga.»
L’altro prese per il braccio il cliente più vicino, proprio di fianco a Mario, lo tirò verso la porta, gli ordinò di mettersi per terra, quindi gli puntò il mitra alla testa ed esplose un solo colpo. Chi dei presenti aveva avuto il fegato di guardare, vide la testa dell’uomo esplodere e il resto del corpo ricadere giù, senza un solo lamento.
Mario aveva avuto il tempo di voltarsi dall’altra parte e non vide gli schizzi di sangue arrivare sino ai vetri degli sportelli vicini, ma udì solo l’urlo isterico di una donna nel silenzio generale.
Il cassiere continuava a rimanere immobile. Il suo collega più vicino capì che l’altro non avrebbe mai avuto la forza di fare un gesto, perciò gli si avvicinò, lo strattonò per cacciarlo dallo sportello, e prese il sacco dalle mani del rapinatore. Svuotò il cassetto col denaro, poi passò dagli altri sportelli e prese a fare lo stesso.
Fu in quell’istante che la guardia giurata rientrò in sala sbucando dal corridoio che si apriva a destra del rapinatore rimasto sulla porta. Come si dice sempre nei libri gialli, fu questione di pochi istanti: la guardia estrasse la pistola e quasi contemporaneamente il bandito si girò verso di lui, attirato dal rumore della corsa in avvicinamento dell’altro. Questa volta però, diversamente dai libri gialli e dalla realtà, fu la guardia ad essere più veloce e colpì l’uomo incappucciato prima alla spalla destra e poi ad una gamba. Pur se colpito al braccio con cui teneva la pistola, il rapinatore esplose alcuni colpi verso il sorvegliante, ma mancò il bersaglio di molto. L’arma gli cadde di mano, gli urtò contro la gamba e volò distante da lui.
Intanto l’altro rapinatore aveva già afferrato la situazione di pericolo, aveva strappato dalle mani del cassiere il sacco con i denari e stava scappando verso la porta.
La guardia sparò anche a lui, ma questa volta fu colpita da una raffica ad altezza gambe e cadde all’indietro in una pozza di sangue.
Da terra il compare ferito vide il socio scappare e capì che per lui era finita.
«Enzo, sono qua, aiutami, non ce la faccio ad alzarmi!» gridò verso l’amico che stava già sparando contro il vetro della porta girevole per aprirsi una via di fuga.
L’uomo che era stato chiamato Enzo doveva avere molta esperienza di situazioni critiche, perché si girò un attimo verso di lui e capì che c’era poco da fare per aiutarlo, e che anzi fermarsi a soccorrerlo significava rischiare di essere preso. Capì anche che se l’altro l’aveva chiamato per nome in quel momento, non doveva essere tanto svelto da capire che era meglio non dire altro una volta catturato. Perciò era meglio se ci pensava lui a evitare che parlasse. Puntò la canna del mitra contro l’uomo a terra ed esplose una raffica.
Mario vide per la seconda volta in vita sua (e nella stessa mattinata) un essere umano morire ammazzato.

(Qui la prima puntata.)


TIM

sabato 28 gennaio 2012

Racconto a puntate: Capello Liquido (I)

In attesa di riprendere le normali trasmissioni, ho pensato di venire incontro alla vostra astinenza forzata dalla lettura del mio blog proponendovi un terzo racconto a puntate. In verità si tratta di un testo che doveva essere inserito nella collana Gemini della Pyra Edizioni , ma tutti sappiamo, purtroppo, com'è andata a finire.
Naturalmente leggendolo dovete tenere conto che è stato scritto una decina di anni fa circa, come gli altri due che l'hanno preceduto. E' un racconto abbastanza lungo (circa 8mila parole) e strano nel suo genere, perché bisogna fare molta attenzione alle date dei vari capitoli (e il fatto di essere pubblicato a puntate forse non faciliterà la cosa, ma darà più pepe alla lettura); il buon Glauco, il curatore della Collana, l'aveva definito, se non erro, un racconto time traveling, che non so di preciso cosa significa, ma mi piace! Volete mettere poter dire davanti ad una squinzia che ti chiede: cosa hai fatto finora nella vita?: ho scritto un racconto time traveling!
Questa di oggi è solo l'introduzione al racconto, dove non si dice ancora nulla sulla trama e i personaggi, ma a quei tempi mettevo sempre un preambolo a quello che scrivevo, e spesso era più bello del racconto in sé (ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmelo).
Vi lasciò, perciò, all'introduzione di

CAPELLO LIQUIDO

OUVERTURE
Ci sono quelli che affermano che ciò che vado scrivendo è solo frutto di una mente molto contorta; altri invece dicono che sono storie troppo lugubri, crude, che vanno a finire male, con troppo sangue, ecc. ecc..
Forse hanno anche ragione.
Però io mi ricordo mia nonna che mi raccontava…
Mia nonna era la caratteristica nonna, quella che tutti sognano di avere, quella che si vede in tutti i film anni '50/'60 con storie sul Natale: paffuta, con i capelli bianchi, i modi sempre gentili e pazienti, quel suo modo di camminare simile ad una mamma oca che guida la sua nidiata verso l’acqua. La ricordo mentre impasta sul tavolo di marmo lo zucchero appena colato dalla pentola dove si era caramellato al punto giusto; e la rivedo mentre con colpi sapienti di coltello e spatola tira fuori tanti bei lingotti che, sapientemente miscelati con aromi alla frutta, al cioccolato e alla vaniglia, diventavano squisite merende per noi nipoti.
E quando non aveva tempo e voglia di mettersi ai fornelli, era la volta del portamonete da dove tirava fuori cinque lire per ciascuno di noi quattro: era esattamente la cifra per comprare un ghiacciolo (erano altri tempi!) alla latteria dietro casa. E se non era il ghiacciolo, d’inverno era una bella manciata di mentine e liquirizia che la negoziante prelevava direttamente dalle enormi bocce in vetro piene di caramelle e dolciumi che presidiavano il bancone.
Ricordo il Natale in cui ebbi in regalo da lei un aereo a batterie, telecomandato, con le ali che si aprivano e si chiudevano, le luci rosse che lampeggiavano e i motori che rombavano come se stessero per far decollare il modellino. Fu il più bel regalo di Natale che ancora ricordo, insieme al poliziotto motociclista, sempre a batterie, che alzava il braccio per intimare l’‘Alt’ con la paletta e rombava sotto il tavolo della cucina sulle sue ruote di gomma piena al suono della sirena. Anche questo, naturalmente, regalo della nonna, perché i nostri genitori, sapientemente, ci facevano solo doni ‘utili’: il maglione, le scarpe, mutande e magliette per tutto l’inverno. Erano altri tempi, l’ho già detto, e la carenza di moneta era sopperita dall’abbondanza di saggezza.
Ebbene, mia nonna mi raccontava quasi tutti i giorni una favola; e vi posso assicurare che, per esempio, quella di Cappuccetto Rosso pur variando spesso (una volta c’era un bosco di pini, un’altra erano querce, una volta la casina si trovava al centro del bosco, un’altra era in riva al laghetto…) aveva sempre alcuni elementi stabili.
Vediamo se ricordo bene la trama: una bambina indifesa, la tipica bimba di otto–dieci anni, innocente, con una concezione rosea della vita, che non ha ancora visto né ForumAmici, decide di andare a trovare la nonna che abita proprio al centro di un bosco (in questa versione). E così, col suo panierino appeso al braccio, attraversa la selva senza accorgersi di tutti i fruscii del bosco, quelli normali (che ci sono in ogni fiaba) e quelli un po’ strani (da film di Pupi Avati). Intanto un lupo decide di avere fame e, vivendo nel bosco, trova la casina della nonnina, entra e sbrana la progenitrice; immaginate le sue fauci che dilaniano le flaccide carni della vecchina, il sangue che cola dalla sua bocca, ecc. ecc.. Non sazio, ha una premonizione e capisce che sta arrivando la nipotina: carne fresca, non ancora contaminata dalle tossine delle arrabbiature della vita, begli ossicini da spolpare e sgranocchiare. Così si mette i vestiti della nonna e si corica nel suo letto. L’innocente bimba giunge e si accorge subito che qualcosa non va: è possibile che la nonnina sia così peggiorata di salute negli ultimi giorni da essere irriconoscibile con quei dentacci, tutto quel pelo nero, quelle unghie? La fanciullina, che è innocente ma non è scema, corre fuori e, poiché la storia sta per finire e non c’è molto tempo, incontra subito un cacciatore, il quale entra, punta immediatamente il fucile contro il lupo e lo colpisce in pieno petto, con un sol colpo, aprendoglielo letteralmente. Anche qui: sangue dappertutto nella stanza, schizzi anche sul vestitino della bambina (ma, essendo rosso, non si nota molto); evidentemente il buon uomo usa pallottole esplodenti, come gli sceriffi delle sperdute contee americane, con armi fuori ordinanza, emuli di Charles Bronson, vendicatori sempre a caccia di banditi e rapinatori. Non contento di questo, al culmine di una crisi parossistica di delirio di onnipotenza, decide di ridare la vita alla nonna della fanciulla (come mai tanto attaccamento a quella sconosciuta fanciullina indifesa?). Così estrae il suo coltello da caccia, venti centimetri e lama in acciaio seghettata, lo immerge nella pancia del lupo (o di quello che resta di lui) e fa un lungo taglio; caccia dentro la mano e tira fuori dallo stomaco dell’ormai defunto animale la nonnina, un po’ sporca di sangue ma viva e vegeta. Non accetto reclami dagli animalisti, ma la fiaba fa proprio così.
Beh, forse la mia nonnina non me la raccontava proprio così, ma vi assicuro che il senso della storia è questa, e questi sono gli elementi essenziali. (D’altronde date questa traccia a Stephen King e vedete cosa ne tira fuori: magari 640 pagine, a venti euro la copia, e ne venderà i soliti cinquecento milioni di libri.)
E vogliamo parlare delle favole di Hansel e Gretel? Di Biancaneve e i sette nani? Sarebbe troppo lungo e non è quello che ora mi interessa.
Per farla breve, la mia mente è cresciuta con le favole, dove qualcuno moriva sempre, e mai per cause naturali; e se per caso questo succedeva, era sempre una mamma che lasciava cinque poveri orfanelli. Erano storie che sapientemente aggiornate potrebbero dare a Dario Argento lo spunto per il seguito di Profondo Rosso.
E poi, ragazzi miei, io sogno le cose che scrivo, più facile di così: mi alzo al mattino, mi siedo davanti al mio computer e tac... è fatto.
Comunque, se le mie storie proprio non vi vanno, non le leggete.
La storia che vorrei raccontarvi oggi, per esempio, è composta da due normali cronache che potremmo leggere tranquillamente sul giornale o ascoltare in quei programmi televisivi del pomeriggio che riempiono le crepe della programmazione guardando dal buco della serratura dei vicini di casa, col pericolo che arrivino anche alla nostra. È mettendo insieme le due storie che nasce il patatrac, come quando metti insieme due composti chimici che da soli sono innocui, ma appena vengono in contatto esplodono. Solo un’avvertenza: attenzione alle date!

TIM

giovedì 26 gennaio 2012

Raccapricciante reportage fotografico dalla penisola italiana

Scusatemi, ma non potevo resistere al plagio del post di Alex sugli esseri un tempo ritenuti mostri leggendari.
Così sono andato per il web e ho trovato questi altri esemplari ritenuti estinti, ma rinvenuti nella penisola italica da alcune spedizioni di paleontologi negli ultimi mesi. Sono tutti molto pericolosi (e d'altra parte le foto lo dimostrano!). Anche quello che pare riposare è in realtà in atteggiamento da caccia: fa finta di essere innocuo per balzare al momento gusto al collo della vittima.
















E chiudo con quest'ultima immagine che parla da sola. Paura!!!




TIM





mercoledì 25 gennaio 2012

Post... rassicurante

... almeno per me!
qui
Non sono morto, anche se è da qualche giorno che non mi faccio più vivo sul blog. E' solo che sono alle prese con l'inventario in negozio e contare centinaia di penne, quaderni, album, migliaia di fogli e cartelle non è né semplice né rapido da fare. 
Ma vi prometto, se ancora vi interessa qualcosa, che fra qualche giorno sarò ancora dei vostri.
Se vi va date un'occhiata alle poche righe qui sotto. Sono parte di un raccontino (che non verità non era per niente programmato!) che spero di finire presto e darvi a puntate in tutto il suo splendore quanto prima.
Dunque, l'agente scelto Bellagamba e il commissario Bacone stanno devono andare a... e l'agente passa con la sua auto (dopo essersi categoricamente rifiutato di partire con la Prinz del capo) a prendere il commissario a casa. E così...

“E questa sarebbe… ”
“Certamente commissa’! cos’ha che non va?”
“Tu non sei voluto venire con la mia Prinz e mi arrivi con una Ritmo!”
“Ritmo 105 TC, 1981. Prodotta, la Ritmo, in due milioni quarantaquattromila trecentonovantatre unità. Questa ha una cilindrata di 1585 cc e cambio automatico a tre rapporti! Ah, io naturalmente ho l’alzacristalli elettrici e, come potete notare, volante a tre razze. ‘Nu gioiello!”
Bacone rimase ancora a guardare la fiammante, per via del colore rosso acceso e della lucentezza della carrozzeria, auto di Bellagamba. Poi chiese:
“Ma ce la facciamo fino a… “
“Commissa’, voi mi offendete! Con questa macchina io ci carico la famiglia e tutti gli anni vado a casa” (casa per Bellagamba era il paesino natio) “e voi dovreste vedere che figurone quando entro nella mia strada con questa macchina e parcheggio sotto al portone!”
“Va bene, Genna’. Andiamo che si fa tardi.”
I due salirono sull’auto e la Ritmo 105 TC dell’agente scelto lasciò il marciapiede davanti casa del commissario, con Bellagamba che si affacciava al finestrino per controllare che non venisse nessuno: non si era mai fidato degli specchietti retrovisori.


TIM

mercoledì 18 gennaio 2012

Ma sì! decalogo anch'io!

pensate abbia attinenza col post?

Premetto che non si parla di letteratura, lettura, scrittura e altri argomenti che finiscono in ...ura. Qui si parla di cretini, genere umanoide molto diffuso sul nostro pianeta, e di cui ognuno di noi porta almeno una scintilla vitale in sé. Qualcuno a sua insaputa, altri più coscientemente (io sono tra questi ultimi). A questa categoria, Fruttero e Lucentini dedicarono tra il 1985 e il 1992 la cosiddetta trilogia del cretino, (La prevalenza del cretino, La manutenzione del sorriso, Il ritorno del cretino).
Ora Bruno Giurato, in quest'articolo pubblicato su Lettera43, trae i migliori 10 aforismi dalla trilogia.
1. TUTTA COLPA DEL PROGRESSO.«Poco interessanti catene di cause ed effetti terapeutici, dietetici, sociali, politici, tecnologici spiegano l'esponenziale proliferazione della bêtise. Figlia del progresso, dell'idea di progresso, essa non poteva che espandersi in tutte le direzioni, contagiare tutte le classi, prendere il sopravvento in tutti i rami dell'umana attività. È stato grazie al progresso che il contenibile stolto dell'antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società ch'egli si compiace di chiamare 'molto complessa' gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per realizzarsi».2. L'INVINCIBILE INCONSAPEVOLEZZA. «Sconfiggerlo (il cretino, ndr) è ovviamente impossibile. Odiarlo è inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d'inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni; e comunque il riso gli appare a priori sospetto, sconveniente, inferiore, anche quando - agghiacciante fenomeno - vi si abbandona egli stesso».3. «IL GHIGNO DEL DELIRIO». «Il cretino è imperturbabile, la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé. Colpito dalle lance nostre o dei pochi altri ostinati partecipanti alla giostra, non cadrà mai dal palo, girerà su se stesso all'infinito svelando per un istante rotatorio il ghigno del delirio, della follia».4. ALLERGIA AL DOVERE. «Tranne forse gli animali delle favole di La Fontaine, nessuno è mai stato bravo come gl'italiani nell'arte d'inventare nobili pretesti per eludere i propri doveri e fare i propri comodi».5. I SETTE VIZI CAPITALI. «Un mendicante tende la mano. L'avaro non gli dà niente, perché cento lire sono sempre cento lire. Il superbo passa senza nemmeno vederlo. L'iracondo se lo toglie dai piedi con un'imprecazione. Il lussurioso non può certo far aspettare la bella Lalage, né il goloso può lasciar scuocere il prelibato risotto, né l'invidioso commuoversi per chi vive libero, senza responsabilità e senza pagare le tasse. L'accidioso si allontana senza fretta né rimorsi, ci penserà qualche altra anima buona».6. MODERNITÀ IN BOTTIGLIA. «Adesso che tutti sono diventati amici dell'effimero, fidanzati del frivolo, sposi del fatuo e del superfluo, ci sentiremo dire che Shirley Temple fu più importante di Virgina Woolf [...]. Oggi uno è tenuto a vergognarsi se non gliene frega nulla dei fumetti, se trova ridicola la recitazione di Humphrey Bogart, se preferisce visitare la galleria Borghese anziché la grande mostra dedicata alla bottiglia nella pubblicità». 7. ABBASSO LA DEMOCRAZIA. «Mille turisti in un chiostro significano in pratica l'annullamento del chiostro. Cento turisti davanti a un Caravaggio equivalgono alla soppressione del Caravaggio. Perduta è la concentrazione, perduto quel lento approccio contemplatico, quel girare attorno, quell'inclinare la testa[...]. È un test durissimo per chi si crede tollerante, democratico».8. LIBERA CHIAPPA. «Cadono i reggipetti ad Alassio e Varigotti, a Finale come le 'quote strappate al nemico' nella Guerra '15-18. [...]. Le ultime resistenze stanno liquefacendosi. La foglia di fico sta per crollare definitivamente. Il nudo integrale è vicino: libera chiappa in libero Stato». 9. AL GULAG, AL GULAG! «A volte ci tenta l'idea della maniera forte. Un elenco di cliché assolutamente vietati, di frasi fatte che comportino il licenziamento in tronco, l'esilio, il confino, i lavori forzati. Ci scoraggia il pensiero che già dopo un mese sarebbe tutto un gulag, dalle Alpi alla Sicilia».10. LA LAGNA DI DONNA. «Il difetto delle donne non è il cretinismo, è la lagna».
Meditiamo, gente, meditiamo.
TIM

lunedì 16 gennaio 2012

La nave dei folli, di Alex Girola

C'è un'etichetta tra le mie che recita: scrittori emergenti. Ma se notate nelle etichette a questo post NON c'è questa. Segno che, ormai, non considero più Alex uno scrittore emergente. Lui come altri vicini di cella nella blogosfera.
Così come, d'altra parte, non esiste un'etichetta che reciti: recensione o critica. Proprio perché io non scrivo recensioni e non sono un critico letterario. Io leggo solamente.
Ora, capita che ho letto La nave dei folli e ve ne voglio parlare. Naturalmente lascio le recensioni di questo racconto lungo a chi le sa fare, vedi l'ultima che ho letto di Angelo Benuzzi. Io mi limiterò, quindi, a parlarne da lettore.
C'è da premettere che questo La nave dei folli è il seguito de Il treno di Moebius, che sono a loro volta i primi due episodi de Il Trittico di Mondo Delta.
E c'è da premettere ancora che il primo episodio del trittico non mi era piaciuto più di tanto. Non so per quale motivo, forse una mia lettura frettolosa, ma mi era sembrato che, benché la materia e la forma ci fossero tutte, Il treno di Moebius era come scritto in fretta, o meglio, per essere precisi, c'era troppa carne al fuoco: pareva che i vari generi (orrore, fantasy, azione, ecc.) fossero troppo mischiati. 
Ora però, questo La nave dei folli mi ha fatto ricredere e alla grande, e mi ha fatto rivalutare anche il primo episodio. Approfittando della domenica ho dato fondo al racconto e devo ammettere di essere saltato più di una volta dal divano dove comodamente poggiavo le terga.
Non solo il racconto mi ha acchiappato sin dall'inizio, ma è un crescendo di azione e colpi di scena. Pare che Alex abbia fatto andare la fantasia a briglia sciolta che più sciolta non si può. Mi è sembrato di rileggere alcune pagine di RS33, una novel action-horror (come la definisce lui) di qualche tempo fa che mi era veramente piaciuta.
La bellezza di questo testo sta proprio nell'aver saputo trovare la quadra a tutte le trame della storia: dalla storia mainstream, se vogliamo, di un gruppo eterogeneo che parte alla ventura ognuno col suo motivo più o meno nascosto, alla scoperta (già anticipata nel precedente episodio) di una porta temporale e di un mondo... al di là di quello che si potrebbe immaginare! Non dico di più perché la sorpresa c'è e deve restare tutta. In alcuni momenti, per le atmosfere create, mi è tornato alla memoria anche un bellissimo libro di Bob Silverberg, Base Hawksbill.
Insomma, questo lavoro mi ha dato la conferma che Alex Girola sia uscito dall'incerto mondo degli scribacchini per entrare a pieno titolo i quello degli scrittori. E mi ha dato anche la convinzione che la vera scrittura non è appannaggio di chi si ritrova il nome su un tomo di 2-300 pagine per 20 euro di spesa, ma va al di là del prezzo, della carta su cui è stampata e di un codice ISBN.
E visto che mi trovo, due righe anche sulla nuova avventura letteraria di Alex: Racconti autoconclusivi, ma legati da continuità. E' proprio di oggi l'uscita di Chernobog avarija (1): La mossa dell'alfiere, il primo della serie. Si legge in un attimo, sono appena 15 paginette, ma regala momenti di azione più che soddisfacente, oltre ad inserire la storia in un quadro misterioso e fantastico, con esseri che sicuramente hanno poco di questo mondo. Vi lascio comunque alla lettura dell'ebook per il vostro divertimento personale.
Chiudo con un saluto: a Carlo Fruttero, in ricordo delle tante ore passate in compagnia dei suoi libri, di quelli scritti con Franco Lucentini e di tutte le antologia di SF curate dai due bricconi della letteratura italiana.
TIM

venerdì 13 gennaio 2012

E poi?

Post sconclusionato.
Negli ultimi giorni abbiamo avuto di che leggere e riflettere, ad esempio, sul perché dedicarsi alla scrittura e poi sul perché lasciar perdere; sui problemi economico/politici/sociali e sulle correnti energetiche che trasportano il pensiero. E su tantissime altre cose che non cito solo perché lo spazio è poco e la vostra pazienza, sicuramente, ancora meno.
Ciò con cui voglio ammorbare l'etere e la rete è invece una domanda più generica e (forse) meno cogente: ma perché facciamo tutto questo?
Cioè: perché ci arrabbattiamo a fare quello che facciamo?
Attenzione, non si tratta di rispondere a: perché campiamo? sarebbe una domanda forse anche inutile, visto che alla fine, se non crepi di subito, ti ritrovi su un letto a fissare il soffitto e a dirti: e ora? Ma sai che è inevitabile, perciò, come dice la parola stessa, non ci puoi fare niente. E qualsiasi cosa ci sia o non ci sia saltato il fosso, è bella che fatta lo stesso.
Quando mi vien voglia di scrivere, di leggere, di cazzeggiare davanti al computer, parto come una scheggia, comincio e poi mi fermo e mi chiedo: ma che sto facendo? Sto scrivendo/leggendo un capolavoro! Bravo! e cosa resterà di tutto questo? Tanto domani mattina si ricomincia da capo e così fino alla fine dei miei giorni.
Scriverai/leggerai 10-100-1000 capolavori, ne discuterai su blog/FB/Twetter/... litigherai con critici e detrattori. E poi? A che serve?
E lo stesso si può dire per chi si alza alle sei del mattino per andare a lavoro e torna alla 6 di sera (se gli va bene) per guadagnare quel minimo che gli permetterà (un forse ormai è d'obbligo) di far arrivare sé e la propria famiglia alla fine del mese. 
Lavori, mangi, dormi; e poi ancora lavori, mangi dormi. Qualche volta scop... hai un rapporto sessuale con persone più o meno conosciute; durante l'anno riesci anche a fare qualche giorno di vacanza (in Australia o a Fregene o Pietra Ligure, dipende da quanto guadagni). Se sei fortunato e trovi una persona con cui vale la pena passare l'esistenza, la sera esci a fare una passeggiata o stai sul divano a guardare qualche cosa il meno demente possibile davanti alla TV.
Vedo passare dalla vetrina del mio negozio centinaia di automobili al giorno che strombazzano perché c'è il deficiente in seconda fila che intasa il regolare svolgimento del traffico, e vedo visi tesi, puntati verso il nulla oltre il parabrezza. O gente col sorriso sulle labbra che entra da me e compra qualcosa per fare un regalino al figlio che lo aspetta a casa. 
E io continuo a chiedermi sempre e lo stesso: e poi?
Fare felice un bambino può essere sicuramente un motivo per essere felici, anch'io faccio delle piccole sorprese al mio nipotino più piccolo, e ne sono contento; anzi non vedo l'ora di dargli la sorpresa, anche se so che dopo due minuti è soppiantata da un cartone in TV o da qualche altra cosa.
Sarà che devo avere qualche malattia strana.
O forse ha ragione il medico col panciotto e il sigaro di  Radio Days : la vita è breve e bisogna godersela!
TIM

martedì 10 gennaio 2012

Lezioni di... giallo

Qualcuno mi ha appena fatto notare che somiglio a Philiph K. Dick; fisicamente dico, il volto. Voi che ne dite? Ah, già... non avete mai visto una mia foto di come sono adesso! Beh, sì, ho la barba più lunga rispetto a quell'altra foto, quella... avete capito, no? Quella che è stata anche riciclata da un altro amico qualche giorno fa, suvvia! Ma se volete... così... per un confronto... ah, non vi interessa? evvabbè amici come prima!
Perciò oggi vi intrattengo con qualche citazione... citabile (madonna quanti punti sospensivi stamattina!) riguardante la scrittura.
Li prendo tutti da Elementi di tenebra. Manuale di scrittura thriller, di Andrea Cappi, di cui ho parlato qui.
Vado ad capocchiam, a caso, senza un nesso logico, tanto per riempire questa pagina e offrire qualche spunto di riflessione, prima che tassino il pensiero e l'intelligenza. 
Partiamo con il perché scrivere gialli, nell'interpretazione di Piero Soria:
Io scrivo per divertirmi e per cercare di divertire. Il giallo è un modo per raccontare tutto: la commedia umana, il nostro vicino, un viaggio... qualsiasi cosa. Si parte dall'intrattenimento, intendo dire un libro che sul comodino ci sta molto poco, che si deve incominciare a leggere, arrivando tutto d'un fiato fino alla fine. La parte gialla serve per portare da un quadro all'altro di questa commedia, la rappresentazione di quello che siamo. Quindi ci vuole un trucco iniziale, il trucco del giallista, se vogliamo, che si mette in opera subito, nelle prime pagine. E poi si prosegue per cento, duecento, trecento pagine creando una serie di tavole. Alla fine bisogna trarre le conclusioni, tutto deve essere molto logico. E quindi nelle ultime pagine c'è il disvelarsi del trucco, della soluzione, del colpo di scena. Ma in mezzo c'è veramente il racconto della vita.(o.c., pg 124)
Ecco, questo è quello che volevo dire ieri nel mio post su Mankell: mi piace perché riesce a raccontare storie di vita quotidiana tenendo attaccato alla pagine con l'escamotage di un mistero.
Ma da dove si comincia? dalla tipologia e modalità del delitto, da un'idea per la soluzione del mistero che fa ripercorre a ritroso la storia? dall'ambientazione? Elizabeth George dice:
Mi è capitato di cominciare da ciascuno di questi quattro elementi. Dipende dal romanzo. Quando ho scritto Scuola per omicidi ho cominciato dal luogo: volevo scrivere una storia ambientata in una scuola britannica (...) Quando ho scritto Dicembre è un mese crudele, che si svolge nel Lancashire, sono partita da un'intenzione: volevo raccontare l'assassino di una brava persona per mano di un'altra brava persona. In Agguato sull'isola il punto di partenza erano i personaggi (...). (o.c., pg126)


Il punto vista personale (io scrivo di me stesso travestito da protagonista) può essere o non essere preso in considerazione. Michael Connelly parlando del suo Henry Bosh confessa che:
L'unica cosa che abbiamo in comune (col poliziotto) è il fatto che siamo entrambi mancini. (o.c., pg 128)
Jeffery Deaver invece afferma:
Credo che sia molto importante per uno scrittore entrare nella mente di tutti i personaggi, tanto i buoni quanto i cattivi. Noi scrittori abbiamo un lavoro0 davvero meraviglioso. Siamo pagati per raccontare storie. Non credo che ci sia niente di meglio. Ma questo non significa che non si debbano rispettare certi obblighi. E uno di questi è diventare i personaggi di cui scriviamo, perché i nostri lettori possano vivere l'esperienza più emozionante possibile. (o.c., pg 128)
E che dire della struttura del racconto? C'è chi come Donald E. Westlake dice che per lui è
Improvvisato, tutto improvvisato. Io sono il mio primo lettore. Non faccio mai un progetto, non faccio mai un outline. Mi racconto la storia giorno per giorno: "Chissà cosa succede adesso?" Mi racconto da solo la storia e peso che, se piace a me, forse piacerà anche a qualcun altro. (o.c., pg 136)
Chi invece, come la già citata Elisabeth George, programma tutto fin nei mini particolari.
Comincio da quello che definisco "soggetto di base": chi è l'assassino, chi è la vittima, qual'è il movente. Una volta stabilito il rapporto tra assassino e vittima, la domanda ovvia è "perché?" E quindi: "Come?" e infine: "Dove?" Queste domande e le risposte che si evolvono da esse costituiscono un "soggetto esteso", lungo un paragrafo. Basandomi su questo paragrafo, stendo una lista generica dei personaggi. Chi sono i personaggi rappresentati da tutte queste domande? Poi do a ciascuno di loro un nome. Quindi do vita a tutti questi personaggi. la loro creazione mi permette di sapere  quali saranno le sottotrame e quindi l'aspetto generale del romanzo. A questo punto costruisco l'esatta ambientazione in cui il delitto avrà luogo. Fatto questo, comincio a scrivere l'outline della vicenda. Quando arrivo a scrivere effettivamente la prima stesura della storia ho a disposizione una quantità significativa di materiale che ho già elaborato e su cui mi posso basare per scoprire quale sarà lo sviluppo della trama... Dall'idea originale alla conclusione della prima stesura passano circa quindici mesi. (...). (o.c., pg. 132)
E mi pare che per oggi materiale su cui riflette ce ne sia abbastanza. Almeno per me.


TIM



lunedì 9 gennaio 2012

La svolta di Ystad

qui
Penso sia venuto il momento di farmi un bel po' di nemici o quanto meno di perdere la stima (se mai l'abbia avuta) di più qualche vicino di cella.
In un mondo (o nicchia di mondo) dove chiunque abbia un seppur minimo tiramento letterario non può che essere affascinato dai vampiri/zombi/non-morti/non-vivi e, usque ad sanguinem, dai loro emuli, io ho cominciato ad amare la letteratura gialla. 
Mi direte che vi sto facendo i maroni quanto un otre di zampogna con questa storia e ci avete anche ragione.
Ho avuto anch'io il mio momento magico in cui vedevo tutto giallo (in senso di itterico!) o rosso (in senso di sanguinolento) e in cui anch'io non potevo immaginare una storia che non avesse un personaggio sbranato da una crocerossina elvetica appena uscita dalla propria tomba sui monti di Bassano del Grappa.
Ma... la vita è mutevole e i gusti anche.
Intendiamoci, a me continuano a piacere le storie, quelle belle, che quindi esulano dal caratterizzarsi come gialle, vampiresche, noir, ecc.. Perciò continuerò a leggere tutto quello che l'universo, ad esempio, pandemico continuerà a produrre, purché raggiunga un minimo di leggibilità. Ma non andrò alla ricerca spasmodica dell'ultimo horror che è da leggere assolutamente perché l'autore riesce a dargli una venatura diesel/steam/ucro/splatter che nessun altro finora.
Tutto ciò detto senza vena polemica o men che meno rispettosa dei gusti altrui.
In questa nuova veste di lettore di gialli, e qui sì che farò la figura del pivello!, ho iniziato ad apprezzare e ammirare un autore svedese degli ultimi.
Preciso che qui non voglio scagliare nessuna freccia a favore dei nuovi giallisti svedesi: ne ho trovati alcuni dei cui libri non sono riuscito ad arrivare a pagina 20.
Ma ce n'è uno del quale mi sono innamorato: Henning Mankell. Sì proprio quello di Kurt Wallander, il poliziotto di Ystad.
So che molti storceranno il naso, come daltronde ho fatto io per un sacco di tempo, forse perché faceva figo dire: bah, quelle cose tutte uguali che tutti leggono solo perché vanno di moda!
Poi mi sono detto: alt! e se mi perdo qualcosa? e se anch'io faccio come tutti gli altri? Allora ho deciso di andare a fondo alla questione e ho acquistato (al solito mercatino dell'usato) Delitto di mezza estate, che mi ha letteralmente stregato.
Sarà che era il periodo in cui cominciavo a mettermi in testa di cambiare genere di scrittura; sarà che effettivamente le pagine di Mankell mi hanno preso di brutto, ma appena ho potuto ho dato fondo al mio portafogli e (sempre al solito negozietto) ho speso 6 euro per L'uomo inquieto e L'uomo che sorrideva. Stranamente ho letto per primo quello che in ordine cronologico chiude la saga di Wallander.
Perché mi è piaciuto da subito Mankell?
Perché lo si può leggere anche senza bisogno di sapere che è un romanzo giallo. Non è difficile capire questa cosa, ma mi spiego lo stesso: quello che mi piace è il suo modo di raccontare la storia, di far vivere il/i personaggio/personaggi, di mostrare un paesaggio che non è solo geografico, di dare uno spaccato della sua società senza bisogno di dover scrivere un saggio. Il suo modo di scrivere mi ha ricordato molto Scerbanenco e Macchiavelli e, perché no, Camilleri. E mi ha fatto venire la voglia di rileggere Simenon.
E' bello seguire le vicende del poliziotto perché non hanno niente di scontato, tanto che a volte ti vien voglia di dire: io con uno come questo non ci voglio avere niente a che fare; e poi ti accorgi che questo non è dovuto ad una costruzione a tavolino del personaggio, ma semplicemente hai davanti uno dei tanto momenti della tua stessa vita, magari uno di cui ti vergogni anche solo a pensarlo. Il rapporto con il padre e la figlia, ad esempio, a volte è al limite della sopportazione, ma è un rapporto vero, perché capisci che anche loro sono personaggi autonomi, non solo pianeti che ruotano attorno al sole principale che è il protagonista (come è difficile rendere autonomi tutti i personaggi di una storia, quasi come capire che nella vita vera è così, e sbagliamo se pensiamo che gli altri sono solo nostre appendici).
E ancora, ho notato come, d'altra parte, la storia poliziesca che fa da trama al racconto serve a Wallander per risolvere le sue storie, nel senso che fa parte integrante della sua vita; insomma non è solo un mestiere il suo, ma è parte viva della sua esistenza: non potrebbe esistere un Wallander che non sia un poliziotto.
Ecco, questo vi dovevo dire.
Non so di cosa vi parlerò domani (o dopo), né se posterò nell'arco di qualche giorno. Daltronde non mi interessa mantenere la posizione in classifica o conservare il tot numero di contatti al giorno; se mi interessasse questo, aprirei un blog di porno o di vaccate politiche (a favore o contro non fa differenza!). Io comunque, per non sbagliare, una bella donna in copertina l'ho messa. Non si sa mai!
TIM

sabato 7 gennaio 2012

Racconto a puntate: Ridi, ridi... (II parte)

Seconda parte del raccontino... odontoiatrico. 

Ridi, ridi che mamma ha fatto gli gnocchi
C’era invece l’altra infermiera, un puffo corvino e con gli occhietti vispi di chi raggiunge sempre uno scopo: il suo. Con lei iniziò a conversare sottovoce. Questo segno di complicità pettegoliera mi fece totalmente un oggetto qualsiasi nel laboratorio, come la sputacchiera, la vetrinetta o… il trapano.
Erano un paio di minuti che non sentivo più rumori provenire dal banco che si trovava praticamente sospeso sul mio stomaco. Questo mi permetteva di afferrare qualche parola della conversazione tra le infermiere. Riuscii a percepire qualche verbo (andata, fatta, sposata) e un nome, Matilda, ripetuto più volte.
A quel punto la mia mente partì al galoppo. Anch’io avevo conosciuto qualcuno che aveva quel nome, ma non riuscivo a focalizzarne il viso né a ricostruire il tempo e il luogo.
Presi a fissare un punto qualsiasi tra la punta delle mie scarpe, a mezz’altezza sul muro sotto la finestra.
A poco a poco si materializzò una lunga treccia rossa e una parola si fece strada: gnocchi. Per il resto niente. Cercai di combinare le due cose, poi di separarle; ancora niente. Continuai per un po’ (ormai il ronzio e la lucina verde erano ripresi ma erano diventati quasi un sottofondo e acquistavano il segno della normalità) quindi riaffiorò alla mia mente un’altra immagine, quella di una bicicletta da bambino in un giardino. Poi i giardini diventarono due, separati da una inferriata. Poi all’improvviso:
“Ridi, ridi, che mamma ha fatto i gnocchi” qualcuno urlò nella mia mente con accento chiaramente romanesco, e fu tutto chiaro.
Molti (moltissimi, a dire il vero) anni prima, io ero un bambinetto di otto – nove anni e passavo molto tempo a casa dei nonni che vivevano in un paese vicino al nostro. I vicini di casa avevano un figlio sposato a Roma che tutte le estati tornava per le ferie.
E la bambina era sua figlia. La bicicletta su cui scorazzava in giardino era il regalo dei nonni per quell’estate e il fatto che a me ancora nessuno avesse fatto un dono del genere mi faceva rodere di rabbia e invidia verso la proprietaria della rossa treccia, che si chiamava proprio Matilda.
Avevo detto a lei che la mia bicicletta (naturalmente più grande e più bella della sua) l’avevo lasciata a casa e …
“Mi scusi, io mi assento un attimo.”
Abbandonai il giardino dei nonni, che adesso si trovava in punto qualsiasi tra la punta delle mie scarpe, e mi voltai verso il luogo da dove proveniva la voce, cioè la porta di mezzo su cui stavano cinguettando a bassa voce le infermiere.
“Sì certo, vada pure” risposi, anche se avrei voluto e dovuto chiederle: e i cinque minuti della dottoressa? Ma rinunciai, perché sapevo che era una partita persa in partenza. Meglio tornare al punto qualsiasi da cui vedevo il giardino.
Sì, Matilda. Ci beccavamo in continuazione, specie io che avevo preso (come ogni bambino della mia età che si scontri per la prima volta con una treccia rossa di quel genere) una cotta per lei; lei che era la più bella bambina del mondo, che da grande sarebbe diventata sicuramente un’attrice, una di quelle che si vedevano in TV, quelle che nei film tutti vogliono baciare e salvare dal cattivo di turno. Però lei aveva la bici e io no. E allora l’invidia e la cotta facevano sì che io stessi sempre lì in attesa di coglierla in fallo.
Così successe che Matilda (non ho mai saputo se col ‘th’) cadde dalla bicicletta mentre compiva le sue strane acrobazie dall’altra parte della cancellata, senza minimamente immaginare quello che passava nella mia testa e nel mio cuore di innocente pargolo di otto nove anni.
Ignaro di come vanno le cose della vita, specie nei confronti delle donne, presi a ridere, con un senso di liberazione - ecco, io sono più bravo di te, che non sai neanche andare in bicicletta – e lei invece a piangere, toccandosi il braccio e le ginocchia sbucciate. Si guardò la mano e la vista di qualche gocciolina di sangue la fece esplodere in un pianto dirotto. Poi si girò verso di me e si accorse che io ridevo con la stessa intensità e gusto con cui lei piangeva.
Si bloccò all’istante (come solo i bambini che poi diventeranno grandi attori sanno fare), mi fissò con sguardo da killer e pronunciò la storica frase:
“Ridi, ridi, che mamma ha fatto i gn …”
Adesso il trapano non stava solo emettendo un ronzio accompagnato dalla lucina verde intermittente.
Adesso il trapano si muoveva.
E non era solo la vibrazione provocata dal ronzio. Stava proprio cercando di uscire dal suo alloggiamento.
Distintamente. Chiaramente.
Provò a sganciarsi, ma il blocco era abbastanza stretto da non mollarlo. Così iniziò a sfilarsi risalendo. E ci stava riuscendo.
Si dice sempre di essere bloccati dalla paura. Era quello che mi stava accadendo: pur capendo che quel coso ce l’aveva con me e stava arrivando, non riuscivo a muovere un muscolo; e per quanto il mio cervello ordinasse in maniera perentoria alle mie gambe di alzarsi dalla poltrona per farmi scendere, loro non ne volevano sapere di obbedire.
Il trapano, intanto, era completamente uscito dal suo alloggiamento e stava salendo con la punta verso il soffitto, come per sgranchirsi dall’essere stato per tanto tempo fermo nella stessa posizione. Sembrava un serpente che uscisse fuori dalla cesta senza che nessun incantatore suonasse il piffero, ma solo perché determinato a vendicarsi di chi l’aveva fatto diventare per anni un fenomeno da baraccone. Pareva avere due occhi che mi fissavano e mi assicuravano che era me che volevano.
Ancorato all’integrato dal proprio filo, volteggiava toccando quasi il soffitto. Un puzzo di carne bruciata stava invadendo la stanza.
Riuscii solo a portarmi la mano alla bocca, in modo involontario, quasi a proteggermi, ma nulla di più.
Poi lui cominciò a scendere, lentamente, fermandosi ogni tanto come ad osservarmi e sentire l’odore della mia paura.
Era cattivo, lo percepivo e continuavo ad avere quella sensazione: voleva me, e non solo perché ero l’unica persona nella stanza.
Era a pochi centimetri dal mio viso. Ora il filo dondolava mollemente, mentre lui era fermo, immobile. Emanava sempre brevi ronzii intermittenti e sempre quel puzzo di carne bruciata.
All’improvviso anche il filo si bloccò e così rimase per non so quanto tempo, forse pochi secondi o mezz’ore, il tempo non contava più.
Ero come ipnotizzato e sentii un suono, come una voce metallica, di quelle prodotte dai computer, provenire dal trapano:
“Tira via quella mano, altrimenti ti ritrovi un buco anche lì.”
Obbedii, senza opporre resistenza alcuna. Aprii anche la bocca, reclinando indietro il capo per facilitargli l’accesso al mio cavo orale.
Lui cominciò ad entrare…
Mi svegliai di soprassalto e guardai l’ora sul display: erano le sette.
Dovevo decidermi a cambiare il tono dell’allarme della mia radiosveglia.
Assolutamente.

Finale troppo scontato? E allora che ne dite, per esempio, di Cose preziose?
TIM
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