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Secondo appuntamento coi racconti a puntate.
Questa volta è un raccontino breve breve, scritto nello stesso periodo dell'altro e che dividerò in due sole puntate.
A questo punto, visto che andrò avanti ancora per un po' con queste amenità farfallose, penso proprio di essere costretto a fare una pagina fissa dove ammucchiare tutte le cianfrusaglie pseudoletterarie. Che mi tocca fare per far campare questo blog!
Comunque, Signore e Signori, ecco a voi la prima parte di
Ridi, ridi, che mamma ha fatto gli gnocchi!
Sentivo distintamente il rumore del trapano che andava. Avete presente il ronzio che fa l’attrezzo del dentista e che vi mette i brividi solo a sentirlo anche dalla sala d’attesa? Proprio quello.
Però io non ero nella sala d’attesa, ma dall’altra parte della porta, disteso sulla sedia di pelle nera, col bavagliolo di carta verde al collo e un tovagliolo, sempre di carta, bianco in mano.
Sentivo il rumore e vedevo la lucina sulla base dell’integrato in corrispondenza del trapano che si accendeva e si spegneva in coordinato col ronzio dell’attrezzo.
Ma non era quello a mettermi paura.
Ero riuscito finalmente a mettere insieme alcune cose ed ora eccomi qua. Il mio secondo molare inferiore era alla frutta e così:
1° avevo dato fondo al mio coraggio e telefonato al dentista dell’ASL;
1° avevo dato fondo al mio coraggio e telefonato al dentista dell’ASL;
2° ero riuscito ad avere un appuntamento praticamente subito (appena dieci giorni d’attesa!);
3° avevo chiesto ad un collega di scambiare con me il turno per non perdere la giornata di lavoro.
Tutto si era messo a posto.
Tutto si era messo a posto.
Intanto al sincrono continuavano rumore e lucina, lucina e rumore e contemporaneamente vedevo riflessa nel vetro dell’armadietto degli attrezzi la testa bionda della dottoressa che continuava a compilare le sue scartoffie. E sentivo l’infermiera che trafficava altrove nella stanza.
Provai.
“Dottoressa, c’è qualche problema con l’attrezzatura?” presi l’argomento alla larga.
“No, perché?” continuando a scrivere.
“Sento dei rumori venire dal trapano.”
“Sarà una sua impressione. Io non sento niente. E lei?” rivolgendosi per un attimo all’infermiera.
Quella a cui veniva riconosciuto il titolo di infermiera era una segaligna cinquantenne, ostentatamente ossigenata che si muoveva a scatti.
Scattò verso di me.
“No. Perché?”
“Il signore dice di sentire un rumore provenire dal trapano.”
“No. Non sento alcun rumore” confermò l’ossigenata abbassandosi verso di me e mostrandomi così due semisfere di carne che avrebbero fatto schifo perfino ad un cane affamato dalla carestia. Diede un’occhiata al trapano e al resto dell’attrezzatura sull’integrato. Prese in mano qualche pezzo, lo guardò attentamente, poi:
“A me pare che tutto vada bene. Sarà solo un po’ di paura” mi sorrise con un’aria che voleva essere complice.
“Sarà” risposi.
Certamente la paura poteva giocare qualche brutto scherzo e ne presi atto. Continuai a guardare attraverso il riflesso della vetrinetta la dottoressa compilare moduli e registri sulla scrivania.
Squillò il telefono a riportarmi sulla terribile sedia di pelle nera.
Rispose l’infermiera e dopo una serie infinita di monosillabi – si, no, bene, certamente, riferirò, e cose del genere – riattaccò.
“Dottoressa, il vicedirettore la cerca e dice se può salire un attimo in amministrazione.”
Spostai lo sguardo al mio specchio personale appena in tempo per vedere la dottoressa gettare con rabbia la penna sul tavolo.
“E no!” sibilò cercando di mantenere un minimo di contegno per quanto glielo permetteva la mascherina protettiva di plastica trasparente che le copriva tutto il viso. “L’ho cercato per tutta la mattinata e si è fatto negare, ora devo interrompere gli interventi in ambulatorio per correre alla sua presenza. Gli dica che deve aspettare la fine delle visite prima di potermi vedere!” e il tono della sua voce virava di parola in parola dall’infastidito all’arrabbiato.
“Ma ha detto che c’è anche il dottor Besutti dell’economato. Probabilmente è per quella faccenda degli arretrati… ” cercò di perorare l’incolpevole ambasciatrice.
“Abbiamo aspettato sei mesi, potremo aspettare ancora un’ora. Non posso lasciare il paziente che è già qui seduto!”
Realizzai in pochi istanti che se non c’è niente di peggio di un dentista con una siringa in una mano e un trapano nell’altra che cerca di intrufolare entrambi nella tua bocca, è ancora peggio se il suddetto dentista è arrabbiato e impaziente di risolvere una questione economica ma solo dopo aver fatto un paio di buchi nel tuo cavo orale. Perciò:
“Se ha bisogno di andare vada, dottoressa. Mezz’ora in più o in meno non migliorerà o peggiorerà la situazione dei miei denti” dissi dalla mia poltrona di sofferenza.
“Assolutamente no, non se ne parla. E’ una questione di principio” disse strappandosi la mascherina.
Ci fu un momento di assoluto silenzio nella stanza.
Avevo gli occhi fissi sulla vetrinetta per controllare le mosse della dottoressa, ma la mia mente era alla ricerca spasmodica di una soluzione che salvasse il mio palato e la mia arcata dentaria dall’ira funesta della dentista.
Mi salvò l’infermiera: l’impressione che avevo di lei cominciò a farsi più favorevole.
“Senta dottoressa, lei vada dal vicedirettore e fra cinque minuti al massimo io la chiamo al telefono dicendo che il paziente sta protestando e minaccia di rivolgersi all’ASL per denunciarla per abbandono di posto di lavoro o qualcosa del genere.”
“Il paziente avrebbe perso la pazienza, insomma”, si ammorbidì la dentista. Era una battuta trita e ritrita come il polpettone di certi ristoranti che quando non c’è più niente da recuperare va a finire nella pasta al forno, ma quella risposta per me fu deliziosa, la fine di un incubo.
“Se vuole, dottoressa, posso anche tornare un altro giorno” cercai di risolvere definitivamente la cosa, anche perché, a pensarci bene, per adesso il pericolo era passato, ma la bionda poteva tornare dal tète a tète col vicedirettore più arrabbiata di prima.
“No, no, non si preoccupi, facciamo come ha suggerito la signora” ora il tono di voce era di nuovo calmo e rilassato come sempre. Poi, rivolta all’infermiera: “Io vado, faccia come ha detto. Ma che siano cinque minuti al massimo, mi raccomando.”
“Vada e non si preoccupi.”
Chi era preoccupato ero io. Anche per via dei rumori che continuavano a venire dal trapano.
Per tutta la conversazione avevo sentito ronzare l’apparecchio al sincrono con l’accensione della lucina verde, ma non avevo detto niente per non peggiorare la situazione che, dal mio punto di vista, si stava già mettendo male di suo.
Eravamo soli, io, l’infermiera, il trapano. Lei finì di armeggiare e diede un’occhiata all’orologio a muro. Evidentemente aveva deciso che era ancora presto per fare la telefonata perché si affacciò alla porta di comunicazione col secondo studio dentistico, dove il medico non era ancora arrivato.
E buona Epifania!
TIM
TIM
Commento meglio quando posti la seconda e ultima puntata, però già questo primo pezzo è interessante! Lo scambio di battute tra i personaggi è credibile e di agevole lettura. :) E il trapano intriga...
RispondiEliminaCiao,
Gianluca
Questo è l'unico che non ho avuto tempo e modo di "editare", almeno ho l'occasione per rileggerlo con più calma :-)
RispondiEliminaP.S.: buon ponte dell'Epifania!
@ Gianluca: fai pure! il trapano... diciamo che il finale è un classico, di quelli che molti forse aborriscono, ma che a mio parere funziona sempre!
RispondiElimina@ Ariano: ce n'è forse ancora qualcuno che non hai avuto modo di leggere ma è ben poca cosa, come hai visto da questo. La seconda parte andrà sabato. Auguri anche a te!