sabato 17 marzo 2012

Racconto a puntate: La passata di pomodoro (II)

Non so se la prima puntata vi abbia fatto fatto fare i salti di piacere o rigettare il pranzo appena consumato. Oppure fatto spegnere il desiderio per la biondina dirimpettaia del terzo piano (succede!).
Sia come sia, sono qui col mio secondo migliaio di parole sull'oggetto che vedete qui di fianco.
Certo ancora non si capisce praticamente niente, a parte che c'è questo pensionato alle prese con la sua vita quotidiana.
Ma, se ricordate, alla fine della puntata precedente, d'un tratto era squillato il campanello della porta... 


La Passata di pomodoro
Non era di certo la vicina di casa che aveva dimenticato di comprare l’olio, perché non era ancora tornata dalle vacanze. Non era il postino perché era ancora troppo presto.
Mentre facevo il rapido esame di cui sopra, il campanello trillò nuovamente.
Istintivamente mi affacciai alla finestra: l’unico elemento estraneo al paesaggio era una Rover del ’90, metallizzata, che sembrava dire con fierezza al mondo intero: sono piccola, ma non vi fidate, se voglio vi faccio vedere i sorci verdi.
Feci un fulmineo giro mentale tra tutti i miei parenti accoppiandoli alle proprie auto, ma nessuno possedeva una Rover.
Terza scampanellata, non arrabbiata ma impaziente.
E andiamo a vedere.
Gli occhialini bianchi che mi stavano guardando da sopra un sorriso protocollare non mi erano nuovi. C’era qualcosa di familiare nell’omino che avevo davanti.
Beh, proprio omino non era avendo i suoi abbondanti novanta chili, ma nel complesso dava proprio l’impressione di un omino ufficialmente rispettoso e ossequioso, almeno quel tanto per dire: lo so che ti sto per rompere le scatole, e anche tu lo sai, ma abbi due minuti di pazienza.
“Ma lo sa che la tradizione ebraica è piena di angeli che fanno su e giù dal cielo tra Dio e gli uomini?” esordì.
“No, guardi, se lei è testimone di Geova o cose del genere, non mi interessa niente, può riprendersi la sua borsa e tornarsene da dove è venuto” fui quasi brusco.
In verità non volevo esserlo, ma quella mattina non avevo voglia e tempo di perdere tempo.
“No, mi scusi, è che riflettevo su queste cose salendo le scale e la sua faccia così aperta e gioviale mi ha ispirato fiducia e mi è venuto spontaneo dirle a lei”
Mi stava prendendo per i fondelli o era una nuova tecnica per agganciare il cliente?
“Mi scusi lei, non volevo essere brusco” buttai lì per lì.
“Non si preoccupi, ci sono abituato. Permette” tendendo la mano “Ernesto Mompolini.”
Ricambiai col mio nome.
Un attimo di silenzioso imbarazzo:
io: gli dico di entrare?
lui: mi farà entrare?
“Prego, si vuole accomodare?” in fondo di tempo ne avevo e il sugo poteva non solo aspettare, ma anche andare a quel paese.
Tirò fuori una strana borsa in plastica rigida nera con una grande scritta gialla: POMO SPLAT.
Lo guidai verso il tinello e lui poggiò la borsa sul tavolo.
“Egregio signore, io sono il rappresentante della POMO SPLAT” – cenno con la mano verso la borsa e impercettibile pausa per creare un po' di suspence – “azienda leader nella produzione e vendita diretta di macchine per passare il pomodoro. Sì, so che oggi come oggi è più facile comprare le lattine già pronte, aprirle con lo strappo e versarle in una pentola. Ma cosa ci sarà in quelle lattine? Vuole mettere il profumo che esce da una bella passata di pomodori freschi che si è scelto personalmente dall’ortolano di fiducia?”
“Lei sfonda una porta aperta!” cominciava ad essermi simpatico “Vuole un caffè?”
“Certamente, è da stamani che ho messo nello stomaco solo un bicchiere di latte freddo.”
“Permetta un attimo, vado in cucina.”
"Se vuole vengo con lei.”
Ci trasferimmo nell’altra stanza e l’omino lasciò la borsa nel tinello.
“Certo i sughi della sua Elisa erano tutta un’altra cosa.”
Mi sorprese: come faceva a sapere di Elisa e dei suoi sughi?
“Come fa a sapere di Elisa e dei suoi sughi” feci meravigliato.
Mi sembrò lui per un attimo sorpreso. Poi:
“Beh, ho visto di là quella foto sulla credenza, quella di lei abbracciato ad una donna e ho capito che doveva essere sua moglie. Poi c’era quel vecchio calendario con la foto della stessa donna e sotto scritto da un bambino ‘zia Elisa’, e così ho fatto due più due. Poi qui in cucina c’è del pomodoro pronto per la padella, lei ha fatto l’osservazione sulla preparazione dei sughi freschi e ho pensato che stesse preparando lei stesso della salsa.”
Non mi aveva spiegato come faceva a sapere che Elisa era ormai morta da tempo, ma avrebbe avuto sicuramente una risposta pronta anche per quella domanda. Perciò non glielo chiesi.
“Normale o decaffeinato”
“Cosa, scusi?”
“Il caffè, dico, lo vuole normale o decaffeinato?”
“Normale, normale, per me il caffè deve essere bello forte, altrimenti non c’è gusto.”
“Mi stava dicendo della sua macchinetta per passare il pomodoro…” e cominciai a preparare la moka.
“Sì, le dicevo che la mia azienda produce questo tipo di macchina e ha preferito conservare la qualità e il materiale di una volta. Anche se forse esteticamente non fa il suo effetto, nella pratica però si dimostra di molto superiore a queste macchinette moderne che durano un giorno e poi vanno in cantina se non nella spazzatura. Lei capisce che la ghisa permette anche un buon lavaggio, e i morsetti la rendono praticamente inamovibile dal piano di lavoro, al contrario delle ventose di gomma, che appena cominciano a seccarsi non tengono più.”
“Come le dicevo prima, lei sfonda una porta aperta, perché anche noi avevamo una macchinetta di ghisa e con quella Elisa faceva la passata. Ma ora non riesco più a trovarla e un attimo prima che lei arrivasse stavo pensando proprio di comprarne un’altra.”
Ci fu come un lampo nei suoi occhi, ma non mi sembrò propriamente il lampo di uno che sta per concludere un affare.
“Ah, vedo che ha un uccellino” Mompolini continuò. “Anch’io avevo un pappagallo, di quelli tutti colorati. Ma col mio lavoro sono continuamente fuori casa e lui era sempre solo, al buio e si stava immalinconendo: mangiava poco, stava lì, in un angolo della gabbia e non faceva più alcun verso. Così ho dovuto regalarlo ai vicini di casa che hanno un figlio piccolo piuttosto vivace. Lo vado a trovare di tanto in tanto e col bambino ha imparato a fare tante cose. A volte lo fa uscire dalla gabbia e mi viene sulla spalla. Sembra che mi riconosca!”
“Questo è un cardellino, ma ormai è vecchio, non ricordo più quanti anni abbia. L’ho preso dopo la morte di Elisa, sa come sono i vecchi, devono avere qualcuno a cui raccontare della sciatica e del conto del droghiere che non torna. E visto che non frequento circoli per vecchi rimbambiti o scuole di ballo per vedovi inflacciditi… ”
L’aroma e il gorgoglio dell’acqua mi stavano avvisando che il caffè era pronto. Spensi il gas e lo versai nelle tazzine.
“Faccia lei con lo zucchero. Forse preferisce il fruttosio?” domandai.
“No, se devo morire giovane voglio farlo alla grande, senza che mi manchi niente, perciò tre cucchiaini di zucchero normale vanno bene.”
Assaporò un sorso. “Buono. Queste vecchie macchinette sono sempre le migliori.”
Forse era solo un modo per riprendere il discorso che gli interessava di più. Infatti:
“Come le nostre macchine per passare il pomodoro di cui le parlavo” finì di bere il caffè “e che ho qui nella borsa. Le dispiace se gliela mostro?”
“No, no, faccia pure, sono curioso di vedere”. In fondo avevo tutta la mattinata libera e poi poteva essere davvero un affare.

prima puntata 



TIM



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