sabato 25 febbraio 2012

Il bello dello scribacchiare

Sento già i brusii dall'altra parte dello schermo: " e mo' che succede! un altro post! S'era calmato finalmente!". 
Sì, lo so che ultimamente non appestavo più di tanto il mondo dorato di voi amici blogger (perché siamo ancora amici, vero?) e mi limitavo a un paio di post la settimana, quando andava grassa. Ora però siamo tornati ad una cadenza di quasi un articoletto al giorno. Non è colpa mia, ma quando certe cose mi stuzzicano non so resistere. E poi, dopo qualche mesetto di presenza su Facebook, mi sono accorto che l'esperienza può andare bene per una sveltina e via, ma oltre questo non c'è niente di meglio del buon vecchio blog se si vuole parlare seriamente di qualcosa; becchi meno gente, ma si possono fare meglio due chiacchiere in pace.
Oggi comunque voglio solo lasciarvi un piccolo spunto di riflessione, in linea con alcuni post che hanno girato per i blog vicini di cella in questa settimana.
Prendo lo spunto da alcune righe tratte da un libro che il dottor Mana conosce bene e mi ha consigliato qualche tempo fa. Si tratta di Scrivere Zen di Natalie Goldberg che a pagina 41 dice (si parla della poesia ma penso che il discorso possa valere sicuramente anche per la prosa):
È doloroso restare invischiati nelle proprie poesie, riscuotere troppi riconoscimenti per una raccolta di poesie. La vita vera sta nello scrivere, non nel leggere le stesse poesie infinite volte per anni e anni. Abbiamo continuamente bisogno di nuove intuizioni, di nuove visioni. Noi non siamo qualcosa di solido e permanente. Non esiste verità definitiva che si possa catturare in una poesia, così da garantirci soddisfazione eterna. Non dobbiamo identificarci troppo con quello che scriviamo. Dietro a quelle parole, nero su bianco, bisogna conservare la nostra fluidità. Noi e le nostre parole non siamo la stessa cosa. Quelle parole rappresentano un momento importante che ci ha attraversati. Eravamo desti, e scrivendone siamo riusciti a catturarlo.
Chiaramente è più facile capire il concetto parlando di poesia, dove ogni verso o parola capta e descrive un'emozione, una sensazione. Ma anche parlando di prosa si può fare lo stesso ragionamento: anche il libro più bello che abbiamo scritto, anche la storia più intensa che abbiamo raccontato, non siamo noi. Abbiamo catturato nelle nostre pagine una situazione puntuale, o anche un pensiero eterno, ma non ci appartiene più, perché nel frattempo noi siamo andati avanti, abbiamo fatto altre esperienze, conosciuto altre persone, vissuto altre storie.
Allora non mi posso fermare al libro / ai libri che ho scritto finora, perché sono acqua passata, sono stati begli esercizi di stile per arrivare a scrivere il prossimo; e così via nel futuro.
Non dobbiamo identificarci troppo in quel che scriviamo non perché dobbiamo scrivere di altri/o che non siamo noi, ma perché quello che abbiamo messo nero su bianco appartiene ad un altro me, quello di ieri. Da oggi in poi si cambia; o meglio si va avanti senza preconcetti o schemi prefabbricati.
Tutto può succedere, domani.
È questo il bello dell'essere uno scribacchino?
Un sacerdote incontrò un giorno un maestro zen e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domandò: "Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cos'è la realtà?".
Il maestro gli diede un pugno in faccia.
Questa mi piace!

TIM

11 commenti:

  1. "Un sacerdote incontrò un giorno un maestro zen e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domandò: "Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cos'è la realtà?". Il maestro gli diede un pugno in faccia."

    Bellissima :-)

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  2. Bell'articolo! Il pugno in faccia finale, poi, bellissimo!! :)

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    1. ho solo voluto dare uno spunto di riflessione. quello che è importante è la frase della Goldberg.

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  3. Verissimo. Noi siamo un flusso in evoluzione di emozioni, siamo mutevoli. Come diceva qualcuno, spesso non sono le cose a cambiare, siamo noi che cambiamo e le vediamo in modo diverso.
    Non è un caso che molti poeti/scrittori non si riconoscono più in certi loro lavori di decenni prima: è come se fossero stati scritti da "un'altra persona".

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    1. Perfettamente d'accordo. L'esempio di Scerbanenco è classico. E meno male!

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  4. Son d'accordo a meta. Ciò che scrivo è parte di me. E' vero che quello che scrivo rimane fermo e noi, invece, andiamo avanti. Ma io, in quanto persona, sono fatto delle mie esperienze, del mio passato e del mio presente. Ciò che farò nel futuro nasce da quello che è cresciuto nel passato. E quello che ho scritto è... per l'appunto, una fotografia (forse incompleta) del mio background. L'origine da cui provengono le mie scelte.
    Per l'appunto, l'io di oggi nasce dall'io di ieri. Per cui quelle storie mi appartengono perché sono i mattoni su cui è costruita la mia personalità. Non considerarli più come parte di me sarebbe come... non avere un'origine.

    Il discorso dovrebbe essere ampliato. Oggi c'è molta discriminazione nei confronti della "storia". Si pensa che ciò che è passato non valga più nulla perché è passato. E invece noi siamo il frutto di quella storia. Dobbiamo imparare dalle nostre origini per non ricadere negli stessi errori. E se il singolo non lo fa al riguardo del proprio background, come si può pretendere che la società lo faccia?

    Già c'è chi vuole riscrivere le vicende accadute nell'olocausto, nei libri di storia, alleggerendole e/o non so cosa. E' giusto? Io credo di no.
    Non è giusto pensare che ciò che è passato non abbia più importanza.
    E' la prima volta che leggo un concetto Zen che afferma di ignorare il proprio passato... foss'anche rivolto a una poesia.

    E' giusto andare avanti, scrivere storie nuove, vivere storie nuove, non essere schiavi del passato. Ma le nostre scelte, consciamente o inconsciamente, derivano dalle nostre esperienze pregresse. Per cui no... non mi piace quel concetto.
    Andare avanti con la consapevolezza del proprio passato... questo lo preferisco.

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    1. Io non lo leggerei come un invito a ignorare o rifiutare il passato, ma come un non fossilizzarci su di esso. qualcosa che ho scritto anni fa non sono l'"io" di adesso e se ora faccio e scrivo cose completamente diverse è perché ho seguito la mia evoluzione personale, nel bene e nel male. Non so spiegarmi meglio, ma forse l'esempio di Stephen King che ha modificato il suo stile e i suoi temi (a prescindere dal fatto che lo faccia per questioni commerciali o meno) è tipico: se si fosse fermato a 10 anni fa perché tutti lo hanno conosciuto per It e Carrie, oggi che ha forse finito la quella vena sarebbe uno scrittore alla frutta.
      Il discorso della storia è, secondo me, diverso. Non si può dimenticare il passato, nel bene e nel male, perché noi veniamo dal passato, come singoli e soprattutto come popolo. E, come giustamente dici tu, gli esempi di chi l'ha fatto sono sotto gli occhi di tutti.

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  5. Sono pienamente d'accordo con il tuo discorso. Gran bell'articolo!

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    1. a volte è difficile distaccarci umoralmente da quello che abbiamo prodotto, forse per questo molti paragonano un libro scritto all'esperienza di un figlio. ma d'altra parte se non andiamo avanti continueremo a scrivere sempre le stesse cose o a non produrre niente altro perché pensiamo di aver scritto il capolavoro assoluto.

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