lunedì 14 aprile 2014

Assumersi la responsabilità di ciò che viviamo: la metamedicina

Oggi era programmato un altro articolo, ma per diversi motivi ho dovuto recuperare qualcosa di nuovo. E visto che la metamedicina * è argomento caro alla nostra collaboratrice Laura, penso che farà piacere a lei, oltre che a voi, poterlo leggere. E magari le potrebbe venire in mente di regalarci qualche articolo sull'argomento!
Il pezzo è tratto dal sito Visione Alchemica, e precisamente da questa pagina.
Eccovelo.
 

Assumersi la responsabilità di ciò che viviamo

Assumere la responsabilità di ciò che viviamo significa riconoscere e accettare che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri atteggiamenti hanno dato luogo sia alle situazioni felici e infelici in cui ci siamo imbattuti, sia alle difficoltà o alle gioie che viviamo attualmente.
Non possiamo parlare di metamedicina senza tener conto della legge di responsabilità, giacché essa costituisce la condizione di base per una vera guarigione. Quando studiavo microbiologia, interrogavo i miei professori per sapere da dove provenissero i microbi (batteri, virus, parassiti, e così via), e mi rispondevano che questi agenti patogeni provenivano da contaminazioni. Accettavo la cosa continuando però a chiedermi dove la prima persona avesse potuto contrarre il microbo. Mi adeguai, paga della massa di conoscenze che esploravo nel mondo affascinante dei microrganismi, ma i miei interrogativi erano latenti; quando cominciai a lavorare in ospedale, ricominciai a chiedermi perché il tale si ripresentasse di continuo con infezioni urinarie, e la tal altra con vaginiti a ripetizione.
Ricordo in particolare un uomo anziano, con la tubercolosi, che praticamente non usciva mai di casa; i pochi visitatori che riceveva non avevano il bacillo di Koch a cui si attribuiva la sua malattia: dove mai avevano potuto ‘contrarre’ quell’infezione? Intuitivamente, sapevo che gli esseri umani possiedono la capacità di sviluppare la malattia sia attirando l’agente infettivo mediante la frequenza vibratoria, sia destabilizzando le molecole delle proprie cellule, consentendo in tal modo lo sviluppo di una patologia. Ma quando azzardavo a proporre questa ipotesi, tutti mi deridevano.
Assumere la responsabilità di ciò che viviamo significa riconoscere e accettare che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri atteggiamenti proprio come le lezioni che bisogna imparare nella nostra evoluzione – abbiano dato luogo sia alle situazioni felici e infelici in cui ci siamo imbattuti sia alle difficoltà o alle gioie che viviamo attualmente. Quando nei seminari e nelle conferenze tocco questo tasto, spesso la gente ribatte: “Sarei io che mi sono attirato un padre violento?» «Se un bambino nasce malato, non sarà mica colpa sua?” “Se mio marito ha perso il lavoro, è perché l’azienda in cui lavorava ha chiuso: non ha nulla a che vedere con lui” “Come a dire che, se ho mal di schiena, sarebbe colpa mia!” ”Non pensavo che uno potesse fabbricarsi una malattia! ” ”È davvero ingiusto. Mio figlio, che non ha fatto male a nessuno, sarà handicappato tutta la vita, mentre ci sono dei criminali che stanno benissimo”. Il mio secondo padre diceva: “C’è un’unica giustizia sulla terra, ed è la morte”.
Tutte queste riflessioni traducono una incomprensione della legge fondamentale della responsabilità, molto spesso confusa con il senso di colpa: è questa confusione a renderla difficile da accettare agli occhi di molte persone, che la leggono così: “Se questa situazione o questa malattia me la sono creata io, allora sarebbe colpa mia se sto male”. Questa chiave di lettura è sbagliata, ed è – per molti di noi – dovuta al tipo di educazione religiosa in cui siamo cresciuti.
La cultura giudaico-cristiana ci ha insegnato ad affidarci a un potere superiore, Dio, e che se agiamo secondo i suoi comandamenti e pratichiamo azioni meritorie, veniamo ricompensati in questa stessa vita o dopo la morte; se invece non obbediamo ai suoi comandamenti o a quelli della Chiesa ci attende la punizione! Con questa base alla prima difficoltà inattesa e inspiegabile automaticamente ci viene da pensare: “Cos’ho fatto di male perché debba capitare questo proprio a me?” Oppure cerchiamo un responsabile esterno, ci dev’essere per forza un ‘colpevole’. Così, quando una situazione ci fa soffrire, abbiamo preso l’abitudine di colpevolizzarci (credendolo di essercela meritata) oppure ne accusiamo altri o addirittura Dio.
Quando dico che essere responsabile della situazione significa che mi riconosco quale creatore di ciò che vivo, non intendo insinuare che ho creato deliberatamente una situazione gradevole o sgradevole, ma che bisogna accettare e riconoscere che i nostri pensieri, il nostro sentire, i nostri atteggiamenti o le lezioni che è necessario integrare nella nostra evoluzione, hanno generato le situazioni felici o infelici che ora stiamo vivendo. La legge della responsabilità, di conseguenza, non ha nulla a che fare con il merito o la punizione, con la fortuna o la sfortuna, con la giustizia o l’ingiustizia, oppure con la colpa: riguarda solo il concatenarsi delle cause e degli effetti.
Non siamo forse liberi di accettare una credenza o rifiutarla? Di scegliere le parole di cui ci serviamo? Di interpretare una parola o una situazione? Non siamo forse liberi di amare e di odiare? Di accusare o comprendere? Di dire del male o del bene? Non siamo forse liberi di guardare la verità in faccia o di mentire a noi stessi? Di reagire o di agire? Di alimentare la paura o di avere fiducia?
Si, siamo liberi. Nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nelle nostre credenze, nei nostri atteggiamenti, nelle nostre scelte. Sebbene abbiamo, tutti quanti, questa libertà intera, non possiamo sfuggire alle conseguenze di ciò che scegliamo di dire, fare, credere. Forse sei pronto a riconoscere il peso delle tue scelte e delle loro conseguenze, ma forse penserai: “Se una persona è al volante e un’altra la investe in pieno, non avrà mica scelto lei di avere un incidente?” No, certamente. E tuttavia, che cosa è accaduto prima dell’incidente perché quella persona si trovasse in quel contesto?
“Nulla è frutto del caso” – Questa verità fondamentale è a volte manipolata, per esempio da certi leader che, per far leva sui loro adepti, dicono: “Il caso non esiste, e se sei venuto qui è perché hai bisogno di noi”. È giusto dire che non esiste il caso, e tuttavia l’interpretazione che si può dare di questa affermazione non è necessariamente quella giusta. Può darsi che una persona si trovi in un gruppo per imparare a dire di no oppure per impiegare il proprio discernimento. Lo stesso Buddha diceva: “Non credete a me, verificate, sperimentate, e quando saprete da voi stessi che qualcosa è favorevole, allora seguitelo; e quando saprete da voi stessi che qualcosa non vi è favorevole, allora rinunciatevi”.
Un senso di colpa può essere la causa di incidenti, problemi e oltre forme di autopunizioni?
Osserva, e trai le tue conclusioni. Puoi verificarlo, se hai già avuto un incidente, che cosa stavi vivendo prima di esso? Un incidente a un piede o alle gambe può essere facilmente collegato a un senso di colpa, per il fatto di precedere qualcuno che invece fa da freno, magari perché a sua volta si rifiuta di avanzare. Un incidente a un dito può essere collegato a un certo perfezionismo; ci si sente colpevoli per aver eseguito un lavoro troppo in fretta o senza troppa cura. La simbologia del corpo può aiutarci a stabilire questo collegamento fra un incidente e ciò di cui si sentiamo colpevoli. (Claudia Rainville **)

Juan Segundo

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* Secondo la metamedicina  il dolore, il disturbo o la patologia sono i segnali di una rottura dell’equilibrio psico-fisico.
** Canadese, fondatrice della metamedicina.

4 commenti:

  1. Penso anche io ci sia una causa per ogni azione o avvenimento
    piacevole o spiacevole delle vita. Anche una malattia contratta dalla nascita. Uno può chiedere
    "e di chi è la colpa?". Se è genetica, ci dev' esser stato qualche gene che per qualche motivo
    si è "rotto" o distorto, e che quindi, tramandato da padre a figlio, è "cicciato fuori".
    Tipo quelle donne che non riescono ad avere un figlio, poi fanno iniezioni, trattamenti,
    suffumigi, o altro... alla fine hanno un bambino ma questi, a volte, càpita
    abbia problemi fisici. Ecco: se non riuscivi ad avere un bambino, significa che non lo dovevi
    avere, ed andare contro natura ha prodotto un "errore" causato dal tuo atteggiamento errato.

    Cercare le cause di un' azione significa responsabilizzare la vera causa e non la falsa causa.

    Stavo proprio chiacchierando ieri con un ragazzo circa la sofferenza ( parlando anche del Buddhismo ). Un esempio che si può riallacciare alla responsabilità trattata nel post.

    Tu ed un tuo amico vi presentate ad un colloquio di lavoro per una grande azienda.
    Il tuo amico, con uno stratagemma non leale, ottiene il posto. Voi ce l' avete con lui.
    L' amico ha una promozione, ha un buon stipendio mentre tu non hai un lavoro
    e non hai entrate mensili. Stai male, soffri e ce l' hai ancora più a morte con il tuo
    ( ormai ) ex-amico.
    Mettiamo il caso che invece l' amico fosse rimasto nel suo ruolo d' entrata nell' azienda.
    Mettiamo il caso che l' amico abbia percepito uno stipendio basso.
    Mettiamo il caso che tu avessi trovato un lavoro migliore e molto più pagato di quello che ha ottenuto il tuo amico
    Mettiamo il caso che l' amico vede chiudere la propria azienda e rimanga senza lavoro.
    Cosa provi tu? Rabbia? No, a quel punto ridi anche, e ti dimentichi persino di lui negli anni a venire.

    La sofferenza dunque è causata dal non prendersi le responsabilità: si soffre per causa propria, per una visione distorta, in base alle situazioni che ci fanno più comodo.
    Non so,.. forse sono andato fuori tema,.. sarò un pò fumato... ma il post era interessante.

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    1. Come sai, quello che pubblico non deve per forza essere qualcosa con cui sono daccordo. Quindi qui non ti risponderò prendendo o no le difese di ciò che ha scritto Claudia Rainville, ma dicendo quello che penso io. Io credo nella sincronicita, per cui se qualcosa va in un certo modo, vuol dire che così doveva andare, non per fatalismo, ma perché la situazione era tale da 'produrre' quel risultato; a partire da questo principio io leggo gli I Ching. E questo vuole anche dire che forse in certi casi io posso intervenire a cambiare la situazione. La sincronicità fa in modo che io (o la persona in questione) sia un tassello di un puzzle più ampio che però si compone man mano che la storia avanza. Probabilmente il tizio doveva avere il posto e l'altro no. Ma dopo aver avuto (o meno) il posto, ognuno ha proseguito nella propria strada, partecipando ad un altro pezzo di storia, indipendente dall'altro, per cui ci può stare sia che il secondo sia rimasto a spasso, sia che abbia avuto più fortuna del primo, il vincitore. Ma qualunque cosa sia successa, a quel punto, ognuno aveva preso una strada diversa e magari le strade non si sono più incrociate. L'unica cosa che penso possa interessare della vita e della storia, è l'impegno che ognuno mette a partecipare a quella storia. Quindi la sofferenza io la vedo come un non capire ciò che sta accadendo, un non riuscire a inserirsi in quella storia. Certo capire il perché di una sofferenza anche fisica è una cosa veramente difficile, ma che si capisca o no, potrebbe alleviarla? Se io non capisco o meno perché mi è venuto un tumore, può far cambiare idea alla malattia? Però serve se io imparo a convivere con il tumore.

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    2. Hai spiegato in maniera più armoniosa lo stesso mio pensiero.
      La metafora del puzzle è la più adatta: o siamo noi a produrre quelle situazioni,
      oppure sono state prodotte da altri pezzi del puzzle.

      In effetti l' errore sta nell' affrontare le situazioni e non nelle situazioni stesse.

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    3. esatto! come sempre le cose a noi esterne possono essere tutte invariabilmente utili o dannose. sta a noi deciderlo.

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