sabato 10 dicembre 2011

Racconto a puntate III°

Della serie: facciamoci del male!
Tanto per rovinare il fine settimana ad Anantamukhi ed a quelli di voi che stanno seguendo le avventure di... già, ancora non c'è nessun personaggio che abbia un nome qui!, ecco un altro appuntamento col mio racconto a puntate. Pensavo questa mattina, appena sceso dal letto e prima di riempire di cereali il vasetto di yogurt, che come penitenza per Natale a sconto dei vostri peccatacci potrei proporvi, dopo questo, qualche altro raccontino scritto da me medesimo nello stesso periodo, quando sapevo ancora scrivere, avevo qualche ideuzza niente male e, soprattutto, non mi ritenevo uno scribacchino ma solo uno che si diverte ad usare carta e penna. Si sa che quando si comincia a pensare in grande inevitabilmente si affonda: è inversamente proporzionale! Potrei riempire le pagine di questo blog, infatti, con Ridi, ridi, che mamma ha fatto gli gnocchi, La passata di pomodoro, e un altro racconto che doveva comparire in una raccolta e che, invece, è rimasto al palo: Capello Liquido. Ma per quest'ultimo devo fare qualche domanda in giro.
E, finalmente, ecco la terza puntata di

Capitan Alex e i giochetti di Remigio
Semplicemente, all’improvviso avevo avuto davanti tutta la scena con al centro la ragazza e un’altra persona a me sconosciuta, ed avevo avuto chiaro in mente quello che stava succedendo. Era come se tutto fosse li, davanti ai miei occhi, e invece di trovarmi in treno fossi stato nella stanza di lei mentre i due si stavano mettendo telefonicamente d’accordo sull’appuntamento. E poi ero volato nell’ufficio di lui che stava sistemando le ultime cose e si stava preparando per uscire e passare da un negozio d’abbigliamento prima di andare alla stazione a prendere la ragazza.
E il mio viaggio passò in questi pensieri.
Guardavo fuori dal finestrino e alla fine la mia attenzione fu catturata da altro. Nel buio vedevo un fila di puntini rossi correre parallelamente al treno, sicuramente auto su una strada di fianco ai binari. Ad un tratto si accese anche una luce arancione, segno che una delle auto voleva sorpassare e aveva azionato l’indicatore lampeggiante.
“Arrivederci e grazie per l’imbeccata di prima. Comunque lei abbia fatto.”
Il saluto della ragazza mi strappò ai miei pensieri.
“Arrivederci” risposi automaticamente e quando tornai a guardare fuori ormai il sorpasso era avvenuto.
Trovai la mia auto ad aspettarmi nel parcheggio poco distante dalla stazione. Rimisi la mascherina all’autoradio, la accesi sintonizzandomi sul canale dove stava per cominciare un GR e misi in moto per tornare a casa. C’era un po’ di traffico a quell’ora (ma qui da noi traffico significa impiegare solo qualche minuto in più del previsto) e decisi di fare un giro un po’ più lungo, che sicuramente avrebbe evitato lo stress da coda ai miei circuiti nervosi.
Fu così che passai sotto l’arrugginito ammasso di ferro ‘risaiolo’, e capii, o almeno credetti di capire.
Era forse quello il ‘dono’? Riuscire a vedere e sentire cose aldilà di quello che si vede e si sente? Riuscire a leggere nella mente delle persone? Si, forse era proprio quello. O forse quello che era successo in treno era stata solo una coincidenza. Inspiegabile, ma pur sempre una coincidenza.
Propendevo per la prima ipotesi, ma naturalmente dovevo avere altre conferme.
Come era quella regola, che avevo studiato ai tempi dell’università, applicando la quale si poteva stabilire la veridicità di un’osservazione? In altre parole: come faccio a sapere se quello che mi sembra di aver capito ha un fondamento nella realtà oppure è solo il segno dell’avvicinarsi dell’arteriosclerosi?
(Se pensate che con questi ragionamenti io stia dando i numeri o voi state per atterrare su un altro pianeta, sappiate che un collega di lavoro dice sempre che a lui piace starmi a sentire quando parlo, perché spesso non capisce niente di quello che dico, ma il tono della mia voce lo rilassa.)
La regola comunque dice che (cito a memoria, tenendo presente che le mie reminiscenze sono spesso molto labili): bisogna osservare la cosa, verificarla in modo obbiettivo e poterla riprodurre nuovamente per poterla riosservare, riverificare ecc.. Da qui all’infinito o quasi. Solo allora si può dire che quello che penso di avere davanti è la realtà.
Ecco, la risposta era proprio lì: dovevo avere altre esperienze del genere e poter verificare gli stessi risultati.
Non passò molto tempo e l’occasione mi si ripresentò.
Mi ero accorto di essere rimasto senza pane, perciò in tutta fretta decisi di andare a comprarlo. Fortunatamente il negozio è proprio girato l’angolo di casa, perciò l’operazione avrebbe richiesto appena un quarto d’ora, permettendomi di non fare tardi sulla solita tabella di marcia che mi avrebbe portato a uscire di casa prima delle 13.30, evitando così di trovare chiuso il passaggio a livello che bisogna attraversare prima di giungere al magazzino dove passo i migliori anni della mia vita (per citare un altro poeta).
Cominciai a sentire qualcosa appena vidi, dal di fuori della vetrina del negozio, che Angela, la fornaia, mi stava osservando.
“Per la miseria! Il suo pane!”
Sentivo e, praticamente, vedevo quelle parole uscire – sì, proprio uscire – dalla testa della bionda fornaia, senza che le sue labbra si muovessero o il suo sguardo avesse un qualche mutamento dall’eterno sorriso che alberga, da quando la conosco, sul suo volto.
Entrai e salutai.
“Ciao” mi stava dicendo con la bocca “appena in tempo, ancora qualche minuto e avresti trovato chiuso”.
“Non ti preoccupare, sono passato per ritirare il mio pane.”
Celando molto bene l’imbarazzo per la bugia che stava per dire, s’inventò:
“Certo, eccolo subito.” Si girò verso le cassettine portapane alle sue spalle e fece finta (lo sapevo io che era solo finzione) di cercare.
“Che stupida quella Marianna!” sbottò “Le avevo fatto la lista del pane da mettere da parte e se ne è dimenticata. Come facciamo adesso? Cosa ti posso dare di quello che c’è?”
A parte il fatto che Marianna va ad aiutarla solo il sabato e quel giorno era giovedì, decisi comunque di lasciar correre e scelsi un formato di pane che poteva andare bene. Sarebbe stato imbarazzante, infatti, spiegarle che sapevo tutto e che, soprattutto, mi stava prendendo per i fondelli.
Dovrei poi raccontarvi di quando andai dal dentista e lessi dietro il sorriso del cavadenti tutto il suo voltastomaco per la puzza che usciva dal mio dente andato a male. Ma sarebbe troppo lungo.
Poi però gli eventi precipitarono.
Dovevo rinnovare la patente e mi servivano delle foto formato tessera. Proprio di fronte la Prefettura qualche ditta lungimirante e accorta aveva piazzato una di quelle macchinette automatiche: infili tre euro* e ti regala quattro foto.
Sapete come funzionano queste cose. Se il sedile non è stato semidistrutto da qualche giovane di buona famiglia in cerca di riscatto dal piatto scorrere della vita quotidiana, fatto solo di vile denaro capitalista e borghese che al massimo ti offre una maglietta Nike e un paio di pantaloni Lewis stracciati e sbiancati all’origine che danno una finta aria vissuta da cento euro a botta; o se qualche altro essere più o meno umano non ha lasciato il segno del suo passaggio notturno, così come i cani lasciano il proprio negli angoli o sui copertoni dell’auto (cosa che ti fa incazzare solo quando quella macchina è la tua) puoi accomodarti, lasciare il tuo obolo e attendere i quattro flash che immortalano i tuoi lineamenti.
Entrai con l’ottimismo e la fretta di chi sa che manca poco al raggiungimento del proprio scopo, e fui fortunato: tutto era in ordine.
Espletai i gesti di rito (una ravviata ai capelli nello specchio, la regolazione del seggiolino ad altezza d’occhi – come da istruzioni disegnate da qualche parte) e infilai le tre monete.
Schiacciai il pulsante e rimasi  in attesa dei flash.
Un flash.
Due flash.
Tre flash.
Uno scatto.
Forse sono finiti. Ho contato male oppure l’ultimo vale per due foto. Mi alzai per uscire.
Quarto flash.
Accidenti, ho sprecato uno scatto. Pazienza, avrò tre foto di fronte e una di spalle. La conserverò insieme a quella del lago col dito sull’angolo destro che copre la testa di Imelda (neanche una gran perdita; forse per questo l’avevo conservata).
Aspettai che s’accendesse la luce rossa, quella che avvisava che la macchinetta stava sviluppando; poi il soffio dell’aria per asciugare le foto; infine la luce verde: erano pronte. Presi la strisciolina di carta plastificata e la sventolai per qualche attimo; anche se sapevo che le foto erano perfettamente asciutte era meglio essere sicuri. Era la mia perenne nevrosi.
Quando le guardai ebbi un sussulto, anzi tre: uno di meraviglia; uno di curiosità; uno di terrore. Nell’ordine.
E quello chi era?
* NdA: bei tempi quando le fototessera costavano così poco!

( ... continua ... )

A proposito: Anantamukhi è una divinità della letteratura del pantheon buddista.
Se poi volete sbizzarrirvi e dirmi come potrebbe continuare a questo punto la storia...
TIM

4 commenti:

  1. Wow, ma mica puoi interromperti così! :O

    Va bene, se proprio devo azzardare un continuo: abbiamo capito che quello che vede nelle foto non è lui. Per me è la rappresentazione di chi gli ha fatto il patto, magari il nostro protagonista ora è una sorta di veicolo e il fatto di poter leggere la mente non è tanto un dono quanto una conseguenza della presenza dell’altro.

    Però boh, non mi ci trovo tanto bene a far congetture esplicite sul proseguimento! XD

    Ciao,
    Gianluca

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  2. @ Gianluca: no preoccupe! Grazie tantissime per il feedback! Diciamo che ti sei avvicinato quanto basta, ma la realtà (anzi la finzione) è un po' più complicata. Anch'io non credevo a quello che avevo scritto quando alla fine il racconto fu portato a termine!

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  3. Simpatico twist finale, rischia di andare in contraddizione con il resto però. Come fa a non riconoscersi se il suo dentista e la panettiera sanno chi è?

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  4. @ Angelo: non è che non hanno riconosciuto lui, ma gli mentono e lui riesce ugualmente a capire la verità perché legge nel loro pensiero.

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