lunedì 12 dicembre 2011

Racconto a puntate IV°

Il fine settimana è andato bene? Avete fatto gli acquisti regalosi per il santo e costoso natale? Benissimo, perché, ricordate, c'è sempre qualcuno da qualche parte che vi sta preparando il pacco. Non quello con la scatola sbrillucicosa, ma quello ricicloso, cioè del regalo che a lui non è piaciuto e vuole adesso affibbiare a voi! Abbiate fede, qualcuno in questo momento sta pensando a voi proprio in questi termini!
Proprio come sto facendo io adesso: vi sto rifilando la quarta puntata di un racconto scritto dieci anni fa! Ahahahah!
E' vero che (quasi) nessuno l'aveva letto allora, ma è pur sempre un riciclo. Solo che non capisco perché Stephen King possa tirare fuori ogni tanto qualcosa dalla scatola in soffitta e lo possa pubblicare tranquillamente senza che nessuno storca il naso pur sapendo che è uno scarto, e io debba giustificarmi! Ma so' che voi, mio pubblico affezionato, in fondo mi perdonerete, anche perché mi pare che questa storia sia molto meglio di quelle che finora vi ho propinato in ebook pdeffato.
E allora, ladie and gentlemen, ecco a voi la quarta puntata di

Capita Alex e i giochetti di Remigio
Non quello delle prime tre fotografie, quello ero io di sicuro, se non altro per il bianco della barba che stava risalendo lungo le tempie, come l’umidità sale dal pavimento ai muri.
Dico quello della quarta fototessera.
Sorrideva con aria contenta, come soddisfatto di essere uscito allo scoperto, di essere finalmente visibile e poter dire: eccomi qua!
Aveva la testa sormontata da una grossa feluca piena di lustrini. Feluca non nel senso della barca, sarebbe stato ridicolo; feluca nel senso del cappello a due punte che prende il nome proprio dalla barca. Non che questa spiegazione rendeva il tipo meno grottesco, ma comunque era quello che vedevo.
Volevo tornare indietro a vedere se nella cabina ci fosse qualcuno; poi mi resi conto che, semplicemente, non era possibile quello che stavo vedendo: nella striscia c’erano tre mie foto con un sorriso ebete da posa fotografica, e la quarta era di chissacchì: un tipo che poteva venire dal ‘700 o da una festa di carnevale.
Ma non eravamo nel settecento né a carnevale.
In quella quarta foto dovevo esserci io, o meglio la mia schiena (tenendo conto di come si erano svolti i fatti), non il capitano di chissà quale arrembaggio di pirati.
Mi riportò alla realtà l’urgenza di tornare in prefettura a consegnare le foto. Ne separai alla meglio tre per l’impiegato, non potevo di certo fargli vedere quello che la macchinetta aveva professionalmente sputato fuori. Allo sportello risposi alle domande di rito per la pratica, compilai e firmai moduli automaticamente, ma la mia testa era comprensibilmente altrove.
Cosa significava tutto ciò? C’era un collegamento con quello che mi era accaduto finora? Sicuramente c’era un nesso, una spiegazione, forse non molto razionale, ma tutta quella storia doveva avere un significato.
Era come se, andato via il mio imballo esterno, davanti all’obiettivo della macchinetta fosse rimasto il mio vero io, così reale da impressionare un negativo fotografico.
Ed io ero, secondo l’aggeggio infernale, quell’uomo con la feluca venuto da chissà dove nel tempo.
No! Non poteva essere, mi stavo forse bevendo il cervello, come si usa dire nei peggiori romanzi del genere?
Riguardai la foto della sequenza rimastami.
Non mi assomigliava per niente. E non solo nelle sembianze che si vedevano, ma anche in quello che s’intuiva dietro quello sguardo e quel sorriso soddisfatto. Non che io non fossi contento della mia vita, specie dopo quel ‘miracolo’ dell’incidente con la statua del riso, ma lui era addirittura raggiante, come se avesse conquistato la luna o si fosse liberato di un grosso peso.
Ecco, era proprio così: sembrava l’espressione di un uomo finalmente libero dopo essere stato rinchiuso, prigioniero, per tantissimo tempo.
Uscii dalla Prefettura. Avevo bisogno di una pausa. Girai l’angolo ed entrai nel parco, passando prima dall’edicola per comprare il giornale. A quell’ora del mattino non c’era quasi nessuno, se non qualche nonno col nipotino al seguito e un paio di coppiette di ragazzini con lo zaino che si aggiravano con l’aria sperduta di chi ha avuto un vuoto di memoria e non ricorda più l’indirizzo della scuola. Notai anche un uomo e una donna, lei in avanzato stato di gravidanza. Camminavano piano e lui la guardava continuamente, con orgoglio. Il suo volto diceva: guardate, sono stato io a fare questo bel lavoro. Forse nessuno gli aveva mai detto che in questi casi la madre è sempre certa; per il padre è d’obbligo il beneficio del dubbio e delle corna.
Ma io avevo la testa che andava da sola, senza freni, e leggendo il giornale non ricordavo la riga successiva quello che avevo letto in quella prima. Non che, spesso, ne valesse la pena, però… .
Decisi di tornare a casa e darmi una bella rinfrescata. Magari un po’ d’acqua fresca mi avrebbe risvegliato da una specie di sogno.
In bagno mi avvicinai quasi furtivamente allo specchio.
Avevo paura di scoprire chi avrei visto riflesso. Non che io sia molto bello, però preferivo trovare la mia di faccia invece di quell’altra. Mi fermai fuori dalla portata dello specchio e feci all’improvviso capolino come per prendere l’omino di sorpresa.
Ormai stavo effettivamente dando i numeri.
Non c’era nessun altro se non io, con un principio di calvizie che aveva aggredito le tempie e la barba da mettere a posto. Mi osservai per qualche attimo, poi spostai tutto il corpo davanti allo specchio e mi poggiai con le mani sul bordi del lavandino per osservarmi meglio, come fanno le donne quando devono togliersi qualche ‘pelo superfluo’.
Aprii il rubinetto, attesi che l’acqua si facesse fresca e poi presi a sciacquarmi il viso, le braccia, il collo e tutto quello che era possibile bagnare senza fare una pozzanghera per terra. Afferrai l’asciugamano di spugna marrone e …
… come mi piace l’asciugamano di spugna! specie quando è stato usato già un paio di volte e si è ammorbidito. Mi piace perché scivola bene sulla pelle, assorbe perfettamente e ti lascia del tutto asciutto.
Riflettevo su questa cosa mentre mi asciugavo e per la prima volta da quando era uscita la sequenza dalla macchinetta fotografica, il mio pensiero non era fisso sulla presenza dell’omino.
Finii di asciugarmi, doppiamente contento ed estasiato: fisicamente, per la carezza dell’asciugamano sulla pelle; mentalmente, per l’assenza di brutti pensieri.
Ebbi solo un attimo di paura quando, aprendo lo sportellino dell’armadietto dove ripongo pettini, profumi, ecc., guardai nello specchio e fui quasi sicuro di averlo visto, ma sicuramente era stata solo un’allucinazione.
Mi sentivo molto meglio. Ero contento, e la mia contentezza divenne felicità quando pensai che quella sera dopo aver gustato una bella spaghettata olio aglio e (molto!) peperoncino mi sarei seduto davanti alla tele a gustare un altro classico, questa volta non culinario ma cinematografico: “Provaci ancora, Sam”.
Uscii dal bagno e mi accorsi di aver lasciato la luce accesa. Provai il pulsante fuori dalla porta, ma si trattava della lampadina della specchiera. Rientrai, mi sporsi per spegnere e nell’attimo prima che la stanza piombasse nel buio più assoluto, lui era lì, con feluca, sorriso soddisfatto e tutto il resto.
Il buio ora era sceso definitivamente e non solo nella stanza.
Avevo paura a riaccendere, ma dovevo farlo; a questo punto dovevo capire quello che stava accadendo.
Sempre al buio mi misi davanti allo specchio, i piedi ben piantati per terra, le mani che afferravano saldamente i bordi del lavandino, le gambe leggermente divaricate, come… come si chiama quell’attore di “Mezzogiorno di fuoco”? beh comunque proprio lui.
Era questione di un attimo, a chi appariva prima al ritorno della luce: la mia stempiatura o la sua feluca. Fu meno di un micron di secondo: allungai la mano verso la pulsantiera e schiacciai.
Si. Lui era ancora lì.
Ma questa volta non dovevo avere più paura. L’affrontai.
Feci la domanda più ovvia del mondo:
“Chi sei?”
Ma con chi stavo parlando?
“Che vuoi ?”
Porca miseria! Ora era lui che faceva le domande! Anzi come ogni saggio rispondeva con una domanda ad un’atra domanda!
A questo punto mi arrabbiai.
“Senti capitano! Qui le domande le faccio io, se non ti dispiace. Fino a prova contraria sei tu che sei arrivato senza che nessuno ti chiamasse!”
“Certo che nessuno mi ha chiamato. Sono io che decido da chi andare, anzi in chi andare.”
Questa non la capivo proprio.
“Che vuol dire in chi andare?”
Per la prima volta da che era apparso prese un aria imbronciata, quasi arrabbiata.
“Ma tu pensi che sia bello vagare per il nulla per secoli? E’ giusto che ogni tanto anch’io mi fermi a godere delle cose del mondo!”
Non capivo, anzi continuavo a non capire.
“Certo che non capisci, non puoi capire.”
Leggeva nella mia mente!
“Si, leggo nella tua mente. Come pensi che abbia fatto tu a sapere quello che gli altri pensavano? Credevi di aver avuto qualche potere magico? Magari la sera dell’incidente? Io non so qual’era il pedaggio che Remigio ti voleva far pagare per averti rimesso al mondo, ma di sicuro non era questo.”
E da dove saltava fuori adesso questo Remigio?

( ... continua ... )

Ah, naturalmente se volete proporre un seguito, dite pure!
TIM

5 commenti:

  1. Ah, non è lui il pedaggio? Andiamo bene, non me lo sarei mai aspettato! :D

    Ciao,
    Gianluca

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  2. Ovviamente ora sono più curioso di una scimmia a tre teste! :)

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  3. @ Gianluca: avevo accennato al fatto che una volta riuscivo ancora a creare interesse o quanto meno curiosità! Penso che nella prossima puntata ci saranno altri colpi di scena!

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  4. Tieni d'occhio il lato parodistico, rischia di farti deragliare il racconto. Per ora vai benissimo.

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  5. @ Angelo: Il racconto è scritto così, molto umorismo ed esagerazioni all'eccesso! Per questo mi piace e ho pensato di proporvelo.

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